venerdì 29 febbraio 2008

Risposte della Congregazione per la dottrina della fede a quesiti sulla validità del Battesimo


RISPOSTE DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE A QUESITI SULLA VALIDITÀ DEL BATTESIMO, 29.02.2008

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

RISPOSTE A QUESITI PROPOSTI sulla validità del Battesimo conferito con le formule

«I baptize you in the name of the Creator, and of the Redeemer, and of the Sanctifier»

e «I baptize you in the name of the Creator, and of the Liberator, and of the Sustainer»

QUESITI

Primo: È valido il Battesimo conferito con le formule «I baptize you in the name of the Creator, and of the Redeemer, and of the Sanctifier» e «I baptize you in the name of the Creator, and of the Liberator, and of the Sustainer»?

Secondo: Devono essere battezzate in forma assoluta le persone che sono state battezzate con queste formule?

RISPOSTE

Al primo: Negativamente.

Al secondo: Affermativamente.

Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nel corso di un’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato questa Risposta, decisa nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Dalla sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 1° febbraio 2008.

William Cardinale LEVADA
Prefetto

+ Angelo AMATO, S.D.B.
Arcivescovo tit. di Sila
Segretario

L'aiuto offerto dall'attività caritativa della Chiesa non deve mai ridursi a gesto filantropico, ma deve essere espressione dell’amore evangelico...


UDIENZA AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DEL PONTIFICIO CONSIGLIO "COR UNUM", 29.02.2008

Alle ore 12.30 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in udienza i partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio "Cor Unum" e rivolge loro il discorso che riportiamo di seguito:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signor Cardinale,
venerati fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!


Sono lieto di incontrarvi in occasione dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio Cor Unum. A ciascuno di voi che prendete parte a quest’Incontro rivolgo il mio cordiale saluto. In particolare saluto il Cardinale Paul Josef Cordes, che ringrazio per le cortesi parole, Mons. Segretario e tutti i Membri e Officiali del Pontificio Consiglio Cor Unum. La tematica sulla quale state riflettendo in questi giorni - "Le qualità umane e spirituali di chi opera nell’attività caritativa della Chiesa" - tocca un elemento importante della vita ecclesiale. Si tratta, infatti, di coloro che svolgono nel Popolo di Dio un servizio indispensabile, la diakonia della carità. E proprio al tema della carità ho voluto dedicare la mia prima Enciclica Deus caritas est.

Colgo, pertanto, volentieri quest’occasione per esprimere particolare riconoscenza a coloro che, a diverso titolo, operano nel settore caritativo, manifestando con i loro interventi che la Chiesa si rende presente, in maniera concreta, accanto a quanti si trovano coinvolti in qualche forma di disagio e di sofferenza. Di quest’azione ecclesiale i Pastori hanno la responsabilità globale ed ultima, per quanto concerne sia la sensibilizzazione che la realizzazione di progetti di promozione umana, specialmente a favore di Comunità meno abbienti.

Rendiamo grazie a Dio poiché sono molti i cristiani che spendono tempo ed energie per far giungere non solo aiuti materiali, ma anche un sostegno di consolazione e di speranza a chi versa in condizioni difficili, coltivando una costante sollecitudine per il vero bene dell’uomo.

L’attività caritativa occupa così un posto centrale nella missione evangelizzatrice della Chiesa. Non dobbiamo dimenticare che le opere di carità costituiscono un terreno privilegiato di incontro anche con persone che ancora non conoscono Cristo o lo conoscono solo parzialmente. Giustamente, dunque, i Pastori e i responsabili della pastorale della carità dedicano un’attenzione costante a chi lavora nell’ambito della diakonia, preoccupandosi di formarli dal punto di vista sia umano e professionale, che teologico-spirituale e pastorale.

In questo nostro tempo si dà una grande rilevanza alla formazione continua tanto nella società quanto nella Chiesa, come dimostra la fioritura di apposite istituzioni e centri creati allo scopo di fornire utili strumenti per acquisire competenze tecniche specifiche. Indispensabile per chi opera negli organismi caritativi ecclesiali è però quella "formazione del cuore", di cui ho parlato nella citata Enciclica Deus caritas est (n. 31 a): formazione intima e spirituale che, dall’incontro con Cristo, fa scaturire quella sensibilità d’animo che sola permette di conoscere fino in fondo e soddisfare le attese e i bisogni dell’uomo. E’ proprio questo che rende possibile l’acquisizione degli stessi sentimenti di amore misericordioso che Dio nutre per ogni essere umano.

Nei momenti di sofferenza e di dolore è questo l’approccio necessario. Chi opera nelle molteplici forme dell’attività caritativa della Chiesa non può, pertanto, contentarsi solo della prestazione tecnica o di risolvere problemi e difficoltà materiali. L’aiuto che offre non deve mai ridursi a gesto filantropico, ma deve essere tangibile espressione dell’amore evangelico.

Chi poi presta la sua opera a favore dell’uomo in organismi parrocchiali, diocesani e internazionali la compie a nome della Chiesa ed è chiamato a lasciar trasparire nella sua attività un’autentica esperienza di Chiesa.

Una valida ed efficace formazione in questo settore vitale non può allora non mirare a qualificare sempre meglio gli operatori delle diverse attività caritative, perché siano anche e soprattutto testimoni di amore evangelico.

Tali essi sono se la loro missione non si esaurisce nell’essere operatori di servizi sociali, ma nell’annuncio del Vangelo della carità. Seguendo le orme di Cristo, essi sono chiamati ad essere testimoni del valore della vita, in tutte le sue espressioni, difendendo specialmente la vita dei deboli e dei malati, seguendo l’esempio della Beata Madre Teresa di Calcutta, che amava e si prendeva cura dei moribondi, perché la vita non si misura a partire dalla sua efficienza, ma ha valore sempre e per tutti.

In secondo luogo, questi operatori ecclesiali sono chiamati ad essere testimoni dell’amore, del fatto cioè che siamo pienamente uomini e donne quando viviamo protesi verso l’altro; che nessuno può morire e vivere per se stesso; che la felicità non si trova nella solitudine di una vita ripiegata su se stessa, ma nel dono di sé. Infine, chi lavora nell’ambito delle attività ecclesiali, deve essere testimone di Dio, che è pienezza di amore ed invita ad amare. La fonte di ogni intervento dell’operatore ecclesiale è in Dio, amore creatore e redentore. Come ho scritto nella Deus caritas est, noi possiamo praticare l’amore perché siamo stati creati a immagine e somiglianza divina per "vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo" (n. 39): ecco ciò a cui ho voluto invitare con questa Enciclica.

Quanta pienezza di significato potete quindi cogliere nella vostra attività! E quanto essa è preziosa per la Chiesa! Mi rallegro che, proprio per renderla sempre più testimonianza del Vangelo, il Pontificio Consiglio Cor Unum abbia promosso per il prossimo mese di giugno un corso di Esercizi Spirituali a Guadalajara per Presidenti e Direttori di organismi caritativi del Continente americano. Esso servirà a recuperare appieno la dimensione umana e cristiana a cui ho appena accennato, e spero che in futuro l’iniziativa si possa ampliare anche ad altre regioni del mondo. Cari amici, ringraziandovi per quel che voi fate, vi assicuro il mio affettuoso ricordo nella preghiera e su ciascuno di voi e sul vostro lavoro imparto di cuore una speciale Benedizione Apostolica.

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giovedì 28 febbraio 2008

Il Papa ai vescovi di El Salvador: "La famiglia è fattore di pace contro la violenza e le piaghe sociali"


Benedetto XVI ai vescovi di El Salvador in visita "ad limina"

La famiglia è fattore di pace contro la violenza e le piaghe sociali

Promuovere la riconciliazione e la pace per superare i dolorosi eventi del passato: è la consegna affidata dal Papa ai vescovi di El Salvador, ricevuti giovedì 28 febbraio, in occasione della visita "ad limina Apostolorum".

La traduzione del discorso del Papa ai vescovi salvadoregni in visita "ad limina"

Cari fratelli nell'episcopato,

1. Con grande gioia vi ricevo in questo giorno in cui, in occasione della vostra visita ad limina, siete venuti fino alle tombe degli Apostoli per rafforzare i vincoli di comunione delle vostre rispettive Chiese particolari con la Sede Apostolica. La mia gioia è ancora più grande perché questa è la prima volta che ho l'opportunità di incontrarmi con voi come Successore di Pietro.
Ringrazio monsignor Fernando Sáenz Lacalle, arcivescovo di San Salvador e Presidente della Conferenza episcopale, per le gentili parole che mi ha rivolto a nome vostro. Attraverso di voi, invio un saluto particolare ai vostri sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli laici che, con generosità e infaticabile sforzo, vivono e annunciano la Buona Novella della Redenzione che Cristo ci ha portato, vera e unica speranza per tutte le genti.

Il popolo salvadoregno si caratterizza, in maggioranza, per la sua fede viva e per il suo profondo sentimento religioso. Il Vangelo, portato lì dai primi missionari e predicato con fervore da pastori pieni di amore di Dio, come monsignor Óscar Arnulfo Romero, si è ampiamente radicato in questa bella terra, recando frutti abbondanti di vita cristiana e di santità.

Ancora una volta, cari fratelli vescovi, è diventata realtà la capacità trasformatrice del messaggio di salvezza, che la Chiesa è chiamata ad annunciare, poiché certamente "la parola di Dio non è incatenata" (2 Timoteo, 2, 9) ed è viva ed efficace (cfr Ebrei, 4, 21).

2. Come Pastori della Chiesa, i vostri cuori si commuovono nel contemplare i gravi bisogni del popolo che vi è stato affidato e che desiderate servire con amore e dedizione. A causa della situazione di povertà, molti si vedono obbligati a emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita, il che provoca spesso conseguenze negative per la stabilità del matrimonio e della famiglia. Conosco anche gli sforzi che state compiendo per promuovere la riconciliazione e la pace nel vostro Paese, e per superare eventi tanto dolorosi del passato.
Allo stesso modo, nel 2005 avete dedicato una lettera pastorale al problema della violenza, considerato il più grave della vostra nazione. Nell'analizzarne le cause, riconoscete che l'incremento della violenza è conseguenza immediata di altre piaghe sociali più profonde, come la povertà, la mancanza di educazione, la progressiva perdita di quei valori che da sempre hanno forgiato l'anima salvadoregna, e la disgregazione familiare. In effetti, la famiglia è un bene indispensabile per la Chiesa e per la società, e anche un fattore fondamentale per costruire la pace (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, n. 3).

Per questo sentite il bisogno di rivitalizzare e di rafforzare in tutte le diocesi un'adeguata ed efficace pastorale familiare, che offra ai giovani una salda formazione spirituale e affettiva, che li aiuti a scoprire la bellezza del piano di Dio sull'amore umano e permetta loro di vivere con coerenza gli autentici valori del matrimonio e della famiglia, quali la tenerezza e il rispetto reciproco, il dominio di sé, la dedizione totale e la fedeltà costante.

3. Dinanzi alla povertà di tante persone, appare come un bisogno ineludibile migliorare le strutture e le condizioni economiche, affinché tutti possano condurre una vita degna. Non bisogna però dimenticare che l'uomo non è un semplice prodotto delle condizioni materiali o sociali in cui vive. Ha bisogno di qualcosa di più, aspira a più di quello che la scienza o qualsiasi iniziativa umana può dargli. Vi è in lui un'immensa sete di Dio, sì, cari fratelli vescovi, gli uomini anelano a Dio nel più intimo del loro cuore, ed Egli è l'unico che può appagare la loro sete di pienezza e di vita, poiché solo Lui ci può dare la certezza di un amore incondizionato, di un amore più forte della morte (cfr Spe salvi, n. 26). "L'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza" (Ibidem, n. 23).

Per questo occorre dare impulso a un ambizioso e audace sforzo di evangelizzazione nelle vostre comunità diocesane, volto a facilitare in tutti i fedeli quell'incontro intimo con Cristo vivo che è alla base e all'origine dell'essere cristiano (cfr Deus caritas est, n. 1). A una pastorale, quindi, che sia incentrata "in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste" (Novo Millennio ineunte, n. 29). Bisogna aiutare i fedeli laici a scoprire sempre più la ricchezza spirituale del loro battesimo, attraverso il quale sono "chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità" (Lumen gentium, n. 40) e che illuminerà il loro impegno di rendere testimonianza a Cristo in mezzo alla società umana (cfr Gaudium et spes, n. 43). Per realizzare questa altissima vocazione hanno bisogno di essere ben radicati in un'intensa vita di preghiera, di ascoltare in modo assiduo e umile la Parola di Dio e di partecipare spesso ai sacramenti, e anche di acquisire un profondo senso di appartenenza ecclesiale e una salda formazione dottrinale, soprattutto per quanto riguarda la dottrina sociale della Chiesa, dove troveranno criteri e orientamenti chiari per poter illuminare cristianamente la società in cui vivono.

4. Nella vostra sollecitudine pastorale i sacerdoti devono occupare un posto particolare. Vi uniscono a loro vincoli strettissimi in virtù del sacramento dell'Ordine che hanno ricevuto e della partecipazione alla stessa missione evangelizzatrice. Meritano i vostri sforzi migliori e la vostra vicinanza, per conoscere la loro situazione personale, per assisterli in tutti i loro bisogni spirituali e materiali e per incoraggiarli a proseguire con gioia il loro cammino di santità sacerdotale. Imitate in questo l'esempio di Gesù, che considerava suoi amici quanti erano con Lui (cfr Giovanni, 15, 15).
Come fondamento e principio visibile di unità nelle vostre Chiese particolari (cfr Lumen gentium, n. 23), vi incoraggio a essere promotori e modelli di comunione nello stesso presbiterio e a raccomandare di vivere la concordia e l'unione di tutti i sacerdoti fra di loro e attorno al vescovo, come manifestazione del vostro affetto di padri e fratelli, senza smettere di correggere le situazioni irregolari quando è necessario.

L'amore e la fedeltà del sacerdote alla sua vocazione sarà la migliore e più efficace pastorale vocazionale, e anche un esempio e uno sprone per i vostri seminaristi, che sono il cuore delle vostre diocesi, e ai quali dovete dedicare le vostre risorse ed energie migliori (cfr Optatam totius, n. 5), poiché sono speranza per le vostre Chiese.
Seguite altresì con attenzione la vita e l'operato degli istituti religiosi, valorizzando e promuovendo nelle vostre comunità diocesane la vocazione e la missione specifiche della vita consacrata (cfr Lumen gentium, n. 44) e incoraggiandoli a collaborare all'attività pastorale diocesana per arricchire "con la loro presenza e il loro ministero, la comunione ecclesiale" (Esortazione Apostolica Pastores gregis, n. 50).

5. Sebbene le sfide che avete dinanzi a voi siano enormi e sembrino superiori alle vostre forze e capacità, sapete di poter ricorrere alla fiducia nel Signore, per il Quale nulla è impossibile (cfr Luca, 1, 37) e aprire il vostro cuore all'impulso della grazia divina. In questo contatto costante con Gesù, il Buon Pastore, nella preghiera matureranno i migliori progetti pastorali per le vostre comunità e sarete veramente ministri di speranza per tutti i vostri fratelli (cfr Pastores gregis, n. 3), poiché è Gesù a rendere fecondo il vostro ministero episcopale che, a sua volta, deve essere un riflesso autentico della vostra carità pastorale, a immagine di Colui che è venuto non "per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (Marco, 10, 45).

6. Cari fratelli, al termine del nostro incontro vi ringrazio di nuovo per la vostra dedizione generosa alla Chiesa e vi accompagno con la mia preghiera, affinché in tutte le vostre sfide pastorali vi colmino di speranza e vi incoraggino le parole del Signore Gesù: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Matteo, 28, 20). Vi stringo al mio cuore con un abbraccio di pace, nel quale includo i sacerdoti, i religiosi, le religiose e i laici delle vostre Chiese locali. Su ognuno di voi e dei vostri fedeli diocesani imploro la costante protezione della Vergine Maria Reina de la Paz, Patrona di El Salvador, e al contempo vi imparto con grande affetto la Benedizione Apostolica.

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(©L'Osservatore Romano - 29 febbraio 2008)

mercoledì 27 febbraio 2008

La conversione di Agostino non è stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall’inizio, ma un vero e proprio cammino, che resta per noi un modello


I PADRI DELLA CHIESA NELLA CATECHESI DI PAPA BENEDETTO XVI

Agostino era un uomo di passione e di intelligenza altissima che cercava la verità e incontrò Cristo (prima catechesi su Sant'Agostino)

Agostino parlava della “vecchiaia del mondo”. Se il mondo invecchia, Cristo è perpetuamente giovane! (seconda catechesi su Sant'Agostino)

Fede e ragione non sono da separare né da contrapporre, ma devono sempre andare insieme. Per Agostino esse sono le due forze che ci portano a conoscere (terza catechesi su Sant'Agostino)

Per Agostino, più importante del fare grandi opere di respiro alto, teologico, era portare il messaggio cristiano ai semplici... (quarta catechesi su Sant'Agostino)

CATECHESI DEL SANTO PADRE: AUDIO INTEGRALE (Radio Vaticana)

Vedi anche:

VISITA DEL SANTO PADRE A VIGEVANO E PAVIA (21-22 APRILE 2007): LO SPECIALE DEL BLOG

Il Papa: "Mi sento molto legato ad Agostino per la parte che ha avuto nella mia vita di teologo e di pastore, e prima ancora di uomo e di sacerdote"

L’UDIENZA GENERALE, 27.02.2008

Sant'Agostino di Ippona

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Cari fratelli e sorelle,

con l’incontro di oggi vorrei concludere la presentazione della figura di sant’Agostino. Dopo esserci soffermati sulla sua vita, sulle opere e su alcuni aspetti del suo pensiero, oggi vorrei tornare sulla sua vicenda interiore, che ne ha fatto uno dei più grandi convertiti della storia cristiana.

A questa sua esperienza ho dedicato in particolare la mia riflessione durante il pellegrinaggio che ho compiuto a Pavia, l’anno scorso, per venerare le spoglie mortali di questo Padre della Chiesa. In tal modo ho voluto esprimere a lui l’omaggio di tutta la Chiesa cattolica, ma anche rendere visibile la mia personale devozione e riconoscenza nei confronti di una figura alla quale mi sento molto legato per la parte che ha avuto nella mia vita di teologo, di sacerdote e di pastore.

Ancora oggi è possibile ripercorrere la vicenda di sant’Agostino grazie soprattutto alle Confessiones, scritte a lode di Dio e che sono all’origine di una delle forme letterarie più specifiche dell’Occidente, l’autobiografia, cioè l’espressione personale della coscienza di sé.

Ebbene, chiunque avvicini questo libro straordinario e affascinante, ancora oggi molto letto, si accorge facilmente come la conversione di Agostino non sia stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall’inizio, ma possa essere definita piuttosto come un vero e proprio cammino, che resta un modello per ciascuno di noi.

Questo itinerario culminò certamente con la conversione e poi con il battesimo, ma non si concluse in quella Veglia pasquale dell’anno 387, quando a Milano il retore africano venne battezzato dal Vescovo Ambrogio.

Il cammino di conversione di Agostino infatti continuò umilmente sino alla fine della sua vita, tanto che si può veramente dire che le sue diverse tappe – se ne possono distinguere facilmente tre – siano un’unica grande conversione.

Sant’Agostino è stato un ricercatore appassionato della verità: lo è stato fin dall’inizio e poi per tutta la sua vita.

La prima tappa del suo cammino di conversione si è realizzata proprio nel progressivo avvicinamento al cristianesimo. In realtà, egli aveva ricevuto dalla madre Monica, alla quale restò sempre legatissimo, un’educazione cristiana e, benché avesse vissuto durante gli anni giovanili una vita sregolata, sempre avvertì un’attrazione profonda per Cristo, avendo bevuto l’amore per il nome del Signore con il latte materno, come lui stesso sottolinea (cfr Confessiones, III, 4, 8).

Ma anche la filosofia, soprattutto quella d’impronta platonica, aveva contribuito ad avvicinarlo ulteriormente a Cristo manifestandogli l’esistenza del Logos, la ragione creatrice. I libri dei filosofi gli indicavano che c’è la ragione, dalla quale viene poi tutto il mondo, ma non gli dicevano come raggiungere questo Logos, che sembrava così lontano.

Soltanto la lettura dell’epistolario di san Paolo, nella fede della Chiesa cattolica, gli rivelò pienamente la verità.

Questa esperienza fu sintetizzata da Agostino in una delle pagine più famose delle Confessiones: egli racconta che, nel tormento delle sue riflessioni, ritiratosi in un giardino, udì all’improvviso una voce infantile che ripeteva una cantilena, mai udita prima: tolle, lege, tolle, lege, "prendi, leggi, prendi, leggi" (VIII, 12,29).

Si ricordò allora della conversione di Antonio, padre del monachesimo, e con premura tornò al codice paolino che aveva poco prima tra le mani, lo aprì e lo sguardo gli cadde sul passo dell’epistola ai Romani dove l’Apostolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13, 13-14).

Aveva capito che quella parola in quel momento era rivolta personalmente a lui, veniva da Dio tramite l’Apostolo e gli indicava cosa fare in quel momento. Così sentì dileguarsi le tenebre del dubbio e si ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo: "Avevi convertito a te il mio essere", egli commenta (Confessiones, VIII, 12,30). Fu questa la prima e decisiva conversione.

A questa tappa fondamentale del suo lungo cammino il retore africano arrivò grazie alla sua passione per l’uomo e per la verità, passione che lo portò a cercare Dio, grande e inaccessibile. La fede in Cristo gli fece capire che il Dio, apparentemente così lontano, in realtà non lo era. Egli, infatti, si era fatto vicino a noi, divenendo uno di noi. In questo senso la fede in Cristo portò a compimento la lunga ricerca di Agostino sul cammino della verità. Solo un Dio fattosi "toccabile", uno di noi, era finalmente un Dio che si poteva pregare, per il quale e con il quale si poteva vivere.

E’ questa una via da percorrere con coraggio e nello stesso tempo con umiltà, nell’apertura a una purificazione permanente di cui ognuno di noi ha sempre bisogno. Ma con quella Veglia pasquale del 387, come abbiamo detto, il cammino di Agostino non era concluso. Tornato in Africa e fondato un piccolo monastero vi si ritirò con pochi amici per dedicarsi alla vita contemplativa e di studio. Questo era il sogno della sua vita.

Adesso era chiamato a vivere totalmente per la verità, con la verità, nell’amicizia di Cristo che è la verità. Un bel sogno che durò tre anni, fino a quando egli non venne, suo malgrado, consacrato sacerdote a Ippona e destinato a servire i fedeli, continuando sì a vivere con Cristo e per Cristo, ma a servizio di tutti. Questo gli era molto difficile, ma capì fin dall’inizio che solo vivendo per gli altri, e non semplicemente per la sua privata contemplazione, poteva realmente vivere con Cristo e per Cristo. Così, rinunciando a una vita solo di meditazione, Agostino imparò, spesso con difficoltà, a mettere a disposizione il frutto della sua intelligenza a vantaggio degli altri. Imparò a comunicare la sua fede alla gente semplice e a vivere così per essa in quella che divenne la sua città, svolgendo senza stancarsi un’attività generosa e gravosa che così descrive in uno dei suoi bellissimi sermoni: "Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti – è un ingente carico, un grande peso, un’immane fatica" (Serm. 339, 4). Ma questo peso egli prese su di sé, capendo che proprio così poteva essere più vicino a Cristo. Capire che si arriva agli altri con semplicità e umiltà, fu questa la sua vera e seconda conversione.

Ma c’è un’ultima tappa del cammino agostiniano, una terza conversione: quella che lo portò ogni giorno della sua vita a chiedere perdono a Dio.

Inizialmente aveva pensato che una volta battezzato, nella vita di comunione con Cristo, nei Sacramenti, nella celebrazione dell'Eucaristia, sarebbe arrivato alla vita proposta del Discorso della montagna: alla perfezione donata nel battesimo e riconfermata nell'Eucaristia. Nell’ultima parte della sua vita capì che quello che aveva detto nelle sue prime prediche sul Discorso della montagna — cioè che adesso noi da cristiani viviamo questo ideale permanentemente — era sbagliato. Solo Cristo stesso realizza veramente e completamente il Discorso della montagna.

Noi abbiamo sempre bisogno di essere lavati da Cristo, che ci lava i piedi, e da Lui rinnovati. Abbiamo bisogno di una conversione permanente. Fino alla fine abbiamo bisogno di questa umiltà che riconosce che siamo peccatori in cammino, finché il Signore ci dà la mano definitivamente e ci introduce nella vita eterna. In questo ultimo atteggiamento di umiltà, vissuto giorno dopo giorno, Agostino è morto.

Questo atteggiamento di umiltà profonda davanti all’unico Signore Gesù lo introdusse all’esperienza di un’umiltà anche intellettuale. Agostino, infatti, che è una delle più grandi figure nella storia del pensiero, volle negli ultimi anni della sua vita sottoporre a un lucido esame critico tutte le sue numerosissime opere. Ebbero così origine le Retractationes ("revisioni"), che in questo modo inseriscono il suo pensiero teologico, davvero grande, nella fede umile e santa di quella che chiama semplicemente con il nome di Catholica, cioè della Chiesa. "Ho compreso – scrive appunto in questo originalissimo libro (I, 19, 1-3) – che uno solo è veramente perfetto e che le parole del discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece – tutti noi, inclusi gli apostoli – dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori".

Convertito a Cristo, che è verità e amore, Agostino lo ha seguito per tutta la vita ed è diventato un modello per ogni essere umano, per noi tutti in cerca di Dio. Per questo ho voluto concludere il mio pellegrinaggio a Pavia riconsegnando idealmente alla Chiesa e al mondo, davanti alla tomba di questo grande innamorato di Dio, la mia prima enciclica, intitolata Deus caritas est.

Questa infatti molto deve, soprattutto nella sua prima parte, al pensiero di sant’Agostino. Anche oggi, come al suo tempo, l’umanità ha bisogno di conoscere e soprattutto di vivere questa realtà fondamentale: Dio è amore e l’incontro con lui è la sola risposta alle inquietudini del cuore umano.

Un cuore che è abitato dalla speranza, forse ancora oscura e inconsapevole in molti nostri contemporanei, ma che per noi cristiani apre già oggi al futuro, tanto che san Paolo ha scritto che "nella speranza siamo stati salvati" (Rm, 8, 24). Alla speranza ho voluto dedicare la mia seconda enciclica, Spe salvi, e anch’essa è largamente debitrice nei confronti di Agostino e del suo incontro con Dio.

In un bellissimo testo sant’Agostino definisce la preghiera come espressione del desiderio e afferma che Dio risponde allargando verso di Lui il nostro cuore. Da parte nostra dobbiamo purificare i nostri desideri e le nostre speranze per accogliere la dolcezza di Dio (cfr In I Ioannis, 4, 6).

Questa sola, infatti, aprendoci anche agli altri, ci salva. Preghiamo dunque che nella nostra vita ci sia ogni giorno concesso di seguire l’esempio di questo grande convertito, incontrando come lui in ogni momento della nostra vita il Signore Gesù, l’unico che ci salva, ci purifica e ci da la vera gioia, la vera vita.

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Sito dedicato a Sant'Agostino

Agostino in "Monastero virtuale"

SALUTO AI PELLEGRINI NELLA BASILICA VATICANA

Sono lieto di salutare cordialmente tutti voi, cari pellegrini provenienti da varie parti d’Italia. Vi incoraggio a crescere nella carità mediante concreti gesti di solidarietà verso le persone più deboli e bisognose, il cui volto è immagine di quello di Cristo. Quanto di materiale doniamo agli altri, è segno del dono più grande che possiamo offrire ai fratelli con l’annuncio e la testimonianza del Vangelo. Questo tempo di Quaresima sia caratterizzato da uno sforzo personale e comunitario di adesione a Cristo per essere testimoni del suo amore.

Je salue cordialement les pèlerins de langue française présents dans cette basilique. Que votre pèlerinage au tombeau de l’Apôtre Pierre soit pour vous l’occasion de mieux découvrir que Dieu est amour et que sa rencontre constitue la seule réponse aux inquiétudes du cœur humain. Par l’intercession de la Vierge Marie, que Dieu vous bénisse ainsi que vos familles et toutes les personnes qui vous sont proches !

Dear Brothers and Sisters, I am pleased to welcome all the English-speaking visitors present here today. May your stay in Rome strengthen your faith, and grant you courage to continue your Lenten journey in prayer, fasting, reconciliation and compassion. Upon all of you I invoke God’s abundant blessings of joy and peace!

Ganz herzlich heiße ich die Audienzteilnehmer aus den deutschsprachigen Ländern hier im Petersdom willkommen. Eure Wallfahrt zum Grab des Apostels Petrus stärke euch im Glauben und in der Liebe, damit ihr Zeugnis geben könnt für die Frohbotschaft des Evangeliums. Die Fastenzeit lädt uns zudem ein, unser Herz für die materielle und seelische Not unserer Mitmenschen zu öffnen, in denen uns Christus selbst begegnet. Er ist es, der uns um unsere Zuwendung und unsere Solidarität bitten. Seien wir großzügig und teilen wir unsere Zeit, unsere Güter und auch unseren Glauben mit unseren bedürftigen Brüdern und Schwestern. Der Herr segne euch und eure Familien.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española aquí presentes. Os deseo que vuestra visita a Roma contribuya a reavivar vuestra vida cristiana con el testimonio de fe y caridad que los Apóstoles dieron en su martirio. Al mismo tiempo, os animo a proseguir con renovada esperanza vuestro camino de conversión cuaresmal para llegar, con el corazón purificado, a la celebración gozosa de la Pascua.

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lunedì 25 febbraio 2008

"Purtroppo non parlo romanesco, ma come cattolici siamo tutti un po' romani e portiamo Roma nel nostro cuore"


VISITE PASTORALI DEL SANTO PADRE NELLA DIOCESI DI ROMA

Vedi anche:

Il rischio di ogni credente è quello di praticare una religiosità non autentica, di cercare la risposta alle attese più intime del cuore non in Dio... (Omelia del Santo Padre in occasione della visita pastorale alla parrocchia di Santa Maria Liberatrice a Testaccio, 24 febbraio 2008)

VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA SANTA MARIA LIBERATRICE A TESTACCIO (CONTINUAZIONE), 25.02.2008

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre Benedetto XVI ha improvvisato ieri mattina al termine dell’Incontro con i gruppi parrocchiali a Santa Maria Liberatrice a Testaccio dopo la lettura di una poesia a Lui dedicata in romanesco (cfr. boll. 122 del 24 febbraio 2008):

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Sono molto contento di essere oggi qui tra voi. Purtroppo non parlo romanesco, ma come cattolici siamo tutti un po' romani e portiamo Roma nel nostro cuore, dunque comprendiamo un po' del dialetto romanesco.

È stato per me molto bello essere salutato con questo vostro dialetto, perchè si capisce che si tratta di parole che vengono dal cuore. Bello e incoraggiante è anche vedere qui in voi rappresentate le tante attività che si svolgono in questa parrocchia, le tante realtà che vi sono: sacerdoti, suore di diverse Congregazioni, catechisti, laici che collaborano in diversi modi con la parrocchia. E vedo anche san Giovanni Bosco vivo tra di voi che continua la sua opera, e vedo anche come la Madonna Liberatrice, colei che rende liberi, inviti ad aprire le porte a Cristo e a dare la vera libertà anche agli altri. Questo significa creare la Chiesa, creare anche la presenza del Regno di Cristo tra di noi. Grazie per tutto questo.

Oggi abbiamo letto un brano del Vangelo molto attuale. La donna samaritana della quale si parla, può apparire come una rappresentante dell'uomo moderno, della vita moderna.

Ha avuto cinque mariti e convive con un altro uomo. Faceva ampio uso della sua libertà e tuttavia non diventava più libera, anzi diventava più vuota. Ma vediamo anche che in questa donna era vivo un grande desiderio di trovare la vera felicità, la vera gioia. Per questo era sempre inquieta e si allontanava sempre di più dalla vera felicità.

Tuttavia anche questa donna, che viveva una vita apparentemente così superficiale, anche lontana da Dio, nel momento in cui Cristo le parla allora mostra che nella profondità del cuore custodiva questa domanda su Dio: chi è Dio?
Dove possiamo trovarlo? Come possiamo adorarlo?


In questa donna possiamo vedere tutto lo specchio della nostra vita di oggi, con tutti i problemi che ci coinvolgono; ma vediamo anche come nella profondità del cuore ci sia sempre la questione di Dio, e l'attesa che Egli si mostri in un altro modo.

La nostra attività è realmente l'attesa; rispondiamo all'attesa di quanti attendono la luce del Signore, e nel darle risposta a questa attesa anche noi cresciamo nella fede e possiamo capire che questa fede è quell'acqua della quale abbiamo sete.

In questo senso voglio incoraggiarvi ad andare avanti con il vostro impegno pastorale e missionario, con il vostro dinamismo per aiutare le persone di oggi a trovare la vera libertà e la vera gioia. Tutti, come questa donna del Vangelo, sono in cammino per essere totalmente liberi, per trovare la piena libertà e per trovare in essa la gioia piena; ma spesso si ritrovano sulla strada sbagliata. Possano costoro, tramite la luce del Signore e la nostra cooperazione con il Signore, scoprire che la vera libertà viene dall'incontro con la Verità che è l'amore e la gioia.

Oggi mi hanno particolarmente toccato due frasi. La prima è quella del parroco: "Abbiamo più futuro che passato". Questa è la verità della nostra Chiesa, ha sempre più futuro che passato. E per ciò con coraggio andiamo avanti.

L'altra frase che mi ha toccato è nel discorso del rappresentante del Consiglio pastorale: "La vera santità è essere allegri". La santità si mostra con l'allegria. Dall'incontro con Cristo nasce l'allegria. E questo vuole essere il mio augurio per tutti voi, che nasca sempre di nuovo questa allegria nel conoscere Cristo e con essa un rinnovato dinamismo nell'annunciarlo ai vostri fratelli. Grazie per tutto quello che fate. Buona Pasqua!

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Ribadisco, ancora una volta, la ferma e costante condanna etica di ogni forma di eutanasia diretta, secondo il plurisecolare insegnamento della Chiesa


Vedi anche:

Mezzi «ordinari» e «straordinari» di preservazione della vita: dal Papa una distinzione che interpella «scienza e coscienza»

«Aiuto concreto alle famiglie nel calvario della sofferenza». Benedetto XVI auspica una innovazione del welfare

Benedetto XVI ribadisce il suo "no" all'eutanasia (Il Tempo)

Giovanni Maria Vian: «Famiglia e no all’aborto per noi cattolici son valori irrinunciabili» (Tornielli per "Il Giornale")

L’appello deI Papa ai medici: la vita va difesa in ogni momento (Il Giornale)

Discorso del Papa alla Pontificia Accademia per la Vita: i video

Mons. Sgreccia: una società che mette a morte i malati terminali consentendo l'eutanasia ha smarrito il senso autentico della solidarietà al morente

Aiutare il malato morente a vivere con dignità, rifiutando le spinte verso l’eutanasia (commento di Radio Vaticana al discorso del Papa)

UDIENZA AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO INDETTO DALLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA SUL TEMA "ACCANTO AL MALATO INGUARIBILE E AL MORENTE: ORIENTAMENTI ETICI ED OPERATIVI" , 25.02.2008

Alle 12.15 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti al Congresso sul tema "Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi", indetto dalla Pontificia Accademia per la Vita in occasione della XIV Assemblea generale dell’Accademia e rivolge loro il discorso che riportiamo di seguito:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

con viva gioia porgo il mio saluto a voi tutti che partecipate al Congresso indetto dalla Pontificia Accademia per la Vita sul tema "Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi".

Il Congresso si svolge in connessione con la XIV Assemblea Generale dell’Accademia, i cui membri sono pure presenti a questa Udienza. Ringrazio anzitutto il Presidente Mons. Sgreccia per le sue cortesi parole di saluto; con lui ringrazio la Presidenza tutta, il Consiglio Direttivo della Pontificia Accademia, tutti i collaboratori e i membri ordinari, onorari e corrispondenti. Un saluto cordiale e riconoscente voglio poi rivolgere ai relatori di questo importante Congresso, così come a tutti i partecipanti provenienti da diversi Paesi del mondo. Carissimi, il vostro generoso impegno e la vostra testimonianza sono veramente meritevoli di encomio.

Già semplicemente considerando i titoli delle relazioni congressuali, si può percepire il vasto panorama delle vostre riflessioni e l’interesse che esse rivestono per il tempo presente, in special modo nel mondo secolarizzato di oggi.

Voi cercate di dare risposte ai tanti problemi posti ogni giorno dall'incessante progresso delle scienze mediche, le cui attività risultano sempre più sostenute da strumenti tecnologici di elevato livello. Di fronte a tutto questo, emerge l’urgente sfida per tutti, e in special modo per la Chiesa, vivificata dal Signore risorto, di portare nel vasto orizzonte della vita umana lo splendore della verità rivelata e il sostegno della speranza.

Quando si spegne una vita in età avanzata, o invece all’alba dell’esistenza terrena, o nel pieno fiorire dell’età per cause impreviste, non si deve vedere in ciò soltanto un fatto biologico che si esaurisce, o una biografia che si chiude, bensì una nuova nascita e un’esistenza rinnovata, offerta dal Risorto a chi non si è volutamente opposto al suo Amore.

Con la morte si conclude l’esperienza terrena, ma attraverso la morte si apre anche, per ciascuno di noi, al di là del tempo, la vita piena e definitiva. Il Signore della vita è presente accanto al malato come Colui che vive e dona la vita, Colui che ha detto: "Sono venuto perché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza" (Gv 10,10), "Io sono la Resurrezione e la Vita: chi crede in me, anche se muore vivrà, (Gv 10,25) e "Io lo resusciterò nell’ultimo giorno" (Gv 6,54).

In quel momento solenne e sacro, tutti gli sforzi compiuti nella speranza cristiana per migliorare noi stessi e il mondo che ci è affidato, purificati dalla Grazia, trovano il loro senso e si impreziosiscono grazie all’amore di Dio Creatore e Padre. Quando, al momento della morte, la relazione con Dio si realizza pienamente nell’incontro con "Colui che non muore, che è la vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita; allora viviamo" (Benedetto XVI, Spe salvi, 27).

Per la comunità dei credenti, questo incontro del morente con la Sorgente della Vita e dell’Amore rappresenta un dono che ha valore per tutti, che arricchisce la comunione di tutti i fedeli. Come tale, esso deve raccogliere l’attenzione e la partecipazione della comunità, non soltanto della famiglia dei parenti stretti, ma, nei limiti e nelle forme possibili, di tutta la comunità che è stata legata alla persona che muore.

Nessun credente dovrebbe morire nella solitudine e nell’abbandono. Madre Teresa di Calcutta aveva una particolare premura di raccogliere i poveri e i derelitti, perché almeno nel momento della morte potessero sperimentare, nell’abbraccio delle sorelle e dei fratelli, il calore del Padre.

Ma non è soltanto la comunità cristiana che, per i suoi particolari vincoli di comunione soprannaturale, è impegnata ad accompagnare e celebrare nei suoi membri il mistero del dolore e della morte e l’alba della nuova vita. In realtà, tutta la società mediante le sue istituzioni sanitarie e civili è chiamata a rispettare la vita e la dignità del malato grave e del morente. Pur nella consapevolezza del fatto che "non è la scienza che redime gli uomini" (Benedetto XVI, Spe salvi, 26), la società intera e in particolare i settori legati alla scienza medica sono tenuti ad esprimere la solidarietà dell’amore, la salvaguardia e il rispetto della vita umana in ogni momento del suo sviluppo terreno, soprattutto quando essa patisce una condizione di malattia o è nella sua fase terminale.

Più in concreto, si tratta di assicurare ad ogni persona che ne avesse bisogno il sostegno necessario attraverso terapie e interventi medici adeguati, individuati e gestiti secondo i criteri della proporzionalità medica, sempre tenendo conto del dovere morale di somministrare (da parte del medico) e di accogliere (da parte del paziente) quei mezzi di preservazione della vita che, nella situazione concreta, risultino "ordinari".

Per quanto riguarda, invece, le terapie significativamente rischiose o che fossero prudentemente da giudicare "straordinarie", il ricorso ad esse sarà da considerare moralmente lecito ma facoltativo. Inoltre, occorrerà sempre assicurare ad ogni persona le cure necessarie e dovute, nonché il sostegno alle famiglie più provate dalla malattia di uno dei loro componenti, soprattutto se grave e prolungata.

Anche sul versante della regolamentazione del lavoro, solitamente si riconoscono dei diritti specifici ai familiari al momento di una nascita; in maniera analoga, e specialmente in certe circostanze, diritti simili dovrebbero essere riconosciuti ai parenti stretti al momento della malattia terminale di un loro congiunto. Una società solidale ed umanitaria non può non tener conto delle difficili condizioni delle famiglie che, talora per lunghi periodi, devono portare il peso della gestione domiciliare di malati gravi non autosufficienti. Un più grande rispetto della vita umana individuale passa inevitabilmente attraverso la solidarietà concreta di tutti e di ciascuno, costituendo una delle sfide più urgenti del nostro tempo.

Come ho ricordato nell’Enciclica Spe salvi, "la misura dell'umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società.

Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana" (n. 38). In una società complessa, fortemente influenzata dalle dinamiche della produttività e dalle esigenze dell’economia, le persone fragili e le famiglie più povere rischiano, nei momenti di difficoltà economica e/o di malattia, di essere travolte. Sempre più si trovano nelle grandi città persone anziane e sole, anche nei momenti di malattia grave e in prossimità della morte.

In tali situazioni, le spinte eutanasiche diventano pressanti, soprattutto quando si insinui una visione utilitaristica nei confronti della persona. A questo proposito, colgo l'occasione per ribadire, ancora una volta, la ferma e costante condanna etica di ogni forma di eutanasia diretta, secondo il plurisecolare insegnamento della Chiesa.

Lo sforzo sinergico della società civile e della comunità dei credenti deve mirare a far sì che tutti possano non solo vivere dignitosamente e responsabilmente, ma anche attraversare il momento della prova e della morte nella migliore condizione di fraternità e di solidarietà, anche là dove la morte avviene in una famiglia povera o nel letto di un ospedale.

La Chiesa, con le sue istituzioni già operanti e con nuove iniziative, è chiamata ad offrire la testimonianza della carità operosa, specialmente verso le situazioni critiche di persone non autosufficienti e prive di sostegni familiari, e verso i malati gravi bisognosi di terapie palliative, oltre che di appropriata assistenza religiosa. Da una parte, la mobilitazione spirituale delle comunità parrocchiali e diocesane e, dall’altra, la creazione o qualificazione delle strutture dipendenti dalla Chiesa, potranno animare e sensibilizzare tutto l’ambiente sociale, perché ad ogni uomo che soffre e in particolare a chi si avvicina al momento della morte, siano offerte e testimoniate la solidarietà e la carità. La società, per parte sua, non può mancare di assicurare il debito sostegno alle famiglie che intendono impegnarsi ad accudire in casa, per periodi talora lunghi, malati afflitti da patologie degenerative (tumorali, neurodegenerative, ecc.) o bisognosi di un’assistenza particolarmente impegnativa. In modo speciale, si richiede il concorso di tutte le forze vive e responsabili della società per quelle istituzioni di assistenza specifica che assorbono personale numeroso e specializzato e attrezzature di particolare costo. E’ soprattutto in questi campi che la sinergia tra la Chiesa e le Istituzioni può rivelarsi singolarmente preziosa per assicurare l’aiuto necessario alla vita umana nel momento della fragilità.

Mentre auspico che in questo Congresso Internazionale, celebrato in connessione con il Giubileo delle apparizioni di Lourdes, si possano individuare nuove proposte per alleviare la situazione di quanti sono alle prese con le forme terminali della malattia, vi esorto a proseguire nel vostro benemerito impegno di servizio alla vita in ogni sua fase. Con questi sentimenti, vi assicuro la mia preghiera a sostegno del vostro lavoro e vi accompagno con una speciale Benedizione Apostolica.

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domenica 24 febbraio 2008

L’Annunciazione, narrata all’inizio del Vangelo di san Luca, è un avvenimento umile, nascosto, ma al tempo stesso decisivo per la storia dell’umanità!


ANGELUS

Piazza San Pietro
V Domenica di Quaresima, 25 marzo 2007


Cari fratelli e sorelle!

Il 25 marzo ricorre la solennità dell’Annunciazione della Beata Vergine Maria. Quest’anno essa coincide con una Domenica di Quaresima e perciò verrà celebrata domani. Vorrei comunque ora soffermarmi su questo stupendo mistero della fede, che contempliamo ogni giorno nella recita dell’Angelus.

L’Annunciazione, narrata all’inizio del Vangelo di san Luca, è un avvenimento umile, nascosto – nessuno lo vide, nessuno lo conobbe, se non Maria –, ma al tempo stesso decisivo per la storia dell’umanità.

Quando la Vergine disse il suo "sì" all’annuncio dell’Angelo, Gesù fu concepito e con Lui incominciò la nuova era della storia, che sarebbe stata poi sancita nella Pasqua come "nuova ed eterna Alleanza". In realtà, il "sì" di Maria è il riflesso perfetto di quello di Cristo stesso quando entrò nel mondo, come scrive la Lettera agli Ebrei interpretando il Salmo 39: "Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per compiere, o Dio, la tua volontà" (Eb 10,7).

L’obbedienza del Figlio si rispecchia nell’obbedienza della Madre e così, per l’incontro di questi due "sì", Dio ha potuto assumere un volto di uomo. Ecco perché l’Annunciazione è anche una festa cristologica, perché celebra un mistero centrale di Cristo: la sua Incarnazione.

"Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua Parola".

La risposta di Maria all’Angelo si prolunga nella Chiesa, chiamata a rendere presente Cristo nella storia, offrendo la propria disponibilità perché Dio possa continuare a visitare l’umanità con la sua misericordia. Il "sì" di Gesù e di Maria si rinnova così nel "sì" dei santi, specialmente dei martiri, che vengono uccisi a causa del Vangelo.

Lo sottolineo ricordando che ieri, 24 marzo, anniversario dell’assassinio di Mons. Oscar Romero, Arcivescovo di San Salvador, si è celebrata la Giornata di preghiera e digiuno per i missionari martiri: vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e laici stroncati nel compimento della loro missione di evangelizzazione e promozione umana. Essi, i missionari martiri, come dice il tema di quest’anno, sono "speranza per il mondo", perché testimoniano che l’amore di Cristo è più forte della violenza e dell’odio. Non hanno cercato il martirio, ma sono stati pronti a dare la vita per rimanere fedeli al Vangelo. Il martirio cristiano si giustifica soltanto come supremo atto d’amore a Dio ed ai fratelli.

In questo tempo quaresimale più frequentemente contempliamo la Madonna che sul Calvario sigilla il "sì" pronunziato a Nazaret. Unita a Gesù, il Testimone dell’amore del Padre, Maria ha vissuto il martirio dell’anima. Invochiamo con fiducia la sua intercessione, perché la Chiesa, fedele alla sua missione, dia al mondo intero testimonianza coraggiosa dell’amore di Dio.

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Il clero di Roma chiede...il Papa risponde (primo incontro del Papa con i sacerdoti romani)


IL PAPA, INTERROGATO, RISPONDE A BRACCIO

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AL CLERO DI ROMA

Basilica di San Giovanni in Laterano
Venerdì, 13 maggio 2005


Cari sacerdoti e diaconi, che prestate il vostro servizio pastorale alla Diocesi di Roma, sono felice di incontrarvi agli inizi del mio ministero di Vescovo di questa Chiesa, "che presiede nell’amore". Saluto con affetto il Cardinale Vicario, che ringrazio per le gentili parole rivoltemi, il Vicegerente e i Vescovi Ausiliari. Saluto con animo amico ciascuno di voi e desidero esprimervi fin da questo primo incontro la mia gratitudine per la vostra fatica quotidiana nella vigna del Signore.

La straordinaria esperienza di fede, che abbiamo vissuto in occasione della morte del nostro amatissimo Papa Giovanni Paolo II, ci ha mostrato una Chiesa di Roma profondamente unita, piena di vita e ricca di fervore: tutto ciò è anche frutto della vostra preghiera e del vostro apostolato. Così, nell’umile adesione a Cristo unico Signore, possiamo e dobbiamo promuovere insieme quella "esemplarità" della Chiesa di Roma che è genuino servizio alle Chiese sorelle presenti nel mondo intero. Il legame indissolubile tra romanum e petrinum implica e richiede infatti la partecipazione della Chiesa di Roma alla sollecitudine universale del suo Vescovo. Ma la responsabilità di una tale partecipazione riguarda a titolo speciale voi, cari sacerdoti e diaconi, uniti al vostro Vescovo dal vincolo sacramentale e costituiti suoi preziosi collaboratori. Conto dunque su di voi, sulla vostra preghiera, sulla vostra accoglienza e dedizione, perché questa nostra amata Diocesi corrisponda sempre più generosamente alla vocazione che il Signore le ha affidato. E da parte mia vi dico: potete contare, nonostante i miei limiti, sulla sincerità del mio paterno affetto per tutti voi.

Cari sacerdoti, la qualità della vostra vita e del vostro servizio pastorale sembra indicare che, in questa come in numerose altre Diocesi del mondo, abbiamo ormai lasciato alle nostre spalle il tempo di quella crisi di identità che ha travagliato tanti sacerdoti.

Rimangono però ben presenti quelle cause di "deserto spirituale" che affliggono l’umanità del nostro tempo e conseguentemente minano anche la Chiesa che vive in questa umanità. Come non temere che esse possano insidiare anche la vita dei sacerdoti? È indispensabile, dunque, ritornare sempre di nuovo alla radice del nostro sacerdozio. Questa radice, come ben sappiamo, è una sola: Gesù Cristo Signore. È Lui che il Padre ha mandato, è Lui la pietra angolare (1Pt 2,7). In Lui, nel mistero della sua morte e risurrezione il regno di Dio viene, e si compie la salvezza del genere umano. Ma questo Gesù non ha nulla che gli appartenga in proprio, è tutto interamente del Padre e per il Padre. Perciò Egli dice che la sua dottrina non è sua, ma di colui che lo ha mandato (cfr Gv 7,16): il Figlio da solo non può fare nulla (cfr Gv 5,19.30).

Questa, cari amici, è anche la vera natura del nostro sacerdozio. In realtà, tutto ciò che è costitutivo del nostro ministero non può essere il prodotto delle nostre capacità personali. Questo vale per l’amministrazione dei Sacramenti, ma vale anche per il servizio della Parola: siamo mandati non ad annunciare noi stessi o nostre opinioni personali, ma il mistero di Cristo e, in Lui, la misura del vero umanesimo. Siamo incaricati non di dire molte parole, ma di farci eco e portatori di una sola "Parola", che è il Verbo di Dio fatto carne per la nostra salvezza. Vale dunque anche per noi la parola di Gesù: "La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato" (Gv 7,16). Cari sacerdoti di Roma, il Signore ci chiama amici, ci fa suoi amici, si affida a noi, ci affida il suo corpo nell’Eucaristia, ci affida la sua Chiesa. E allora dobbiamo essere davvero suoi amici, avere con Lui un solo sentire, volere quello che Egli vuole e non volere quello che Egli non vuole. Gesù stesso ci dice: "Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando" (Gv 15,14). Sia questo il nostro comune proposito: fare, tutti insieme, la sua santa volontà, nella quale è la nostra libertà e la nostra gioia.

Poiché ha in Cristo la sua radice, il sacerdozio è, per sua natura, nella Chiesa e per la Chiesa. La fede cristiana infatti non è qualcosa di puramente spirituale e interiore e la nostra stessa relazione con Cristo non è soltanto soggettiva e privata. È invece una relazione del tutto concreta ed ecclesiale. A sua volta, il sacerdozio ministeriale ha un rapporto costitutivo con il corpo di Cristo, nella sua duplice e inseparabile dimensione di Eucaristia e di Chiesa, di corpo eucaristico e di corpo ecclesiale. Perciò il nostro ministero è amoris officium (S. Agostino, In Iohannis Evangelium Tractatus 123,5), è l’ufficio del buon pastore, che offre la vita per le pecore (cfr Gv 10,14-15). Nel mistero eucaristico Cristo si dona sempre di nuovo e proprio nell’Eucaristia noi impariamo l’amore di Cristo e quindi l’amore per la Chiesa. Ripeto pertanto con voi, cari fratelli nel sacerdozio, le indimenticabili parole di Giovanni Paolo II: "La Santa Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata" (Discorso del 27 ottobre 1995 nel trentennale del Decreto Presbyterorum ordinis). E questa dovrebbe essere una parola che ognuno di noi può personalmente dire come parola sua: la Santa Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata. Nello stesso modo, l’ubbidienza a Cristo, che corregge la disubbidienza di Adamo, si concretizza nell’ubbidienza ecclesiale, che per il sacerdote è, nella pratica quotidiana, anzitutto ubbidienza al suo Vescovo. Nella Chiesa però l’ubbidienza non è qualcosa di formalistico; è ubbidienza a colui che è a sua volta ubbidiente e impersona il Cristo ubbidiente. Tutto ciò non vanifica e nemmeno attenua le esigenze concrete dell’ubbidienza, ma assicura la sua profondità teologale e il suo respiro cattolico: nel Vescovo ubbidiamo a Cristo e alla Chiesa intera, che egli rappresenta in questo luogo.

Gesù Cristo è stato mandato dal Padre, nella potenza dello Spirito, per la salvezza dell’intera famiglia umana e noi sacerdoti, attraverso la grazia del sacramento, siamo resi partecipi di questa sua missione. Come scrive l’Apostolo Paolo, "Dio… ha affidato a noi il ministero della riconciliazione… Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio" (2Cor 5,18-20). Così San Paolo descrive la nostra missione di sacerdoti. Perciò, nell’omelia che ha preceduto il Conclave, ho parlato di una "santa inquietudine" che deve animarci, l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, di offrire a tutti quella salvezza che, sola, rimane in eterno. E in una città così grande come Roma che, da una parte è così penetrata dalla fede e nella quale tuttavia ci sono tante persone che non hanno percepito nel cuore realmente l’annunzio della fede, tanto più dobbiamo essere animati da questa inquietudine di portare questa gioia, questo centro della vita che le dà senso e direzione. Cari fratelli sacerdoti di Roma, Cristo risorto ci chiama a essere suoi testimoni e ci dona la forza del suo Spirito, per esserlo davvero. È necessario dunque stare con Lui (cfr Mc 3,14; At 1, 21-23). Come nella prima descrizione del "munus apostolicum", in Marco 3, è descritto quanto il Signore pensava che dovrebbe essere il significato di un apostolo: stare con Lui ed essere disponibile alla missione. Le due cose vanno insieme e solo stando insieme con Lui siamo anche e sempre in movimento con il Vangelo verso gli altri. Quindi è essenziale stare con Lui e così si anima l’inquietudine e ci si rende capaci di portare la forza e la gioia della fede agli altri, di dare testimonianza con tutta la nostra vita e non solo con qualche parola. Valgono per noi le parole dell’Apostolo Paolo: "Non è… per me un vanto predicare il Vangelo: è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo!… Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero… mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno" (1Cor 9, 16-22). Queste parole che sono l’autoritratto dell’apostolo ci danno anche il ritratto di ogni sacerdote. Questo "farsi tutto a tutti" si esprime nella vicinanza quotidiana, nell’attenzione per ogni persona e famiglia: voi sacerdoti di Roma avete al riguardo una grande tradizione, e lo dico con profonda convinzione, e la state onorando anche oggi, quando la città si è tanto dilatata ed è profondamente cambiata. È decisivo, come sapete bene, che la vicinanza e l’attenzione a tutti avvenga sempre nel nome di Cristo e sia costantemente protesa a condurre a Lui.

Naturalmente una tale vicinanza e dedizione ha per ciascuno di voi, di noi, un costo personale, significa tempo, preoccupazioni, dispendio di energie. Conosco questa vostra fatica quotidiana e voglio ringraziarvi, da parte del Signore. Ma vorrei anche aiutarvi, in quanto posso, a non cedere sotto questa fatica. Per poter resistere, e anzi crescere, come persone e come sacerdoti, è fondamentale anzitutto l’intima comunione con Cristo, il cui cibo era fare la volontà del Padre (cfr Gv 4,34): tutto ciò che facciamo, lo facciamo in comunione con Lui e ritroviamo così sempre di nuovo l’unità della nostra vita in tante dispersioni favorite dalle diverse occupazioni di ogni giorno. Dal Signore Gesù Cristo, che ha sacrificato se stesso per fare la volontà del Padre, impariamo inoltre l’arte dell’ascesi sacerdotale, che anche oggi è necessaria. Essa non va collocata accanto all’azione pastorale, come un peso aggiuntivo che rende ancora più gravosa la nostra giornata. Al contrario, nell’azione stessa dobbiamo imparare a superarci, a lasciare e donare la nostra vita. Ma, perché tutto questo avvenga realmente in noi e perché realmente la nostra azione sia in se stessa la nostra ascesi e il nostro donarsi, perché non rimanga tutto questo solo un desiderio, abbiamo senza dubbio bisogno di momenti per ritemprare le nostre energie anche fisiche, e soprattutto per pregare e meditare, rientrando nella nostra interiorità e trovando dentro di noi il Signore. Perciò il tempo per stare alla presenza di Dio nella preghiera è una vera priorità pastorale, non è una cosa accanto al lavoro pastorale, stare davanti al Signore è una priorità pastorale, in ultima analisi la più importante. Ce lo ha mostrato nel modo più concreto e luminoso Giovanni Paolo II, in ogni circostanza della sua vita e del suo ministero.

Cari sacerdoti, non sottolineeremo mai abbastanza quanto la nostra personale risposta alla chiamata alla santità sia fondamentale e decisiva. È questa la condizione non solo perché il nostro personale apostolato sia fruttuoso ma anche, e più ampiamente, perché il volto della Chiesa rifletta la luce di Cristo (cfr Lumen gentium, 1), inducendo così gli uomini a riconoscere e ad adorare il Signore. La supplica dell’Apostolo Paolo a lasciarsi riconciliare con Dio (cfr 2Cor 5,20) dobbiamo accoglierla anzitutto in noi stessi, chiedendo al Signore con cuore sincero e con animo determinato e coraggioso di allontanare da noi tutto ciò che ci separa da Lui ed è in contrasto con la missione che abbiamo ricevuto. Il Signore, siamo sicuri, è misericordioso e saprà esaudirci.

Il mio ministero di Vescovo di Roma si colloca nel solco di quello dei miei Predecessori, accogliendo in particolare l’eredità preziosa che ha lasciato Giovanni Paolo II: per questa via, cari sacerdoti e diaconi, camminiamo insieme con serenità e fiducia. Continueremo a cercare di far crescere la comunione all’interno della grande famiglia della Chiesa diocesana e a collaborare per incrementare l’orientamento missionario della nostra pastorale, in conformità alle linee di fondo del Sinodo romano, tradotte in atto con particolare efficacia nell’esperienza della Missione cittadina.

Roma è una Diocesi assai grande ed è una Diocesi davvero speciale, per la sollecitudine universale che il Signore ha affidato al suo Vescovo. Perciò il vostro rapporto, cari sacerdoti, con il Vescovo diocesano, che sono io purtroppo, non può avere quell’immediatezza quotidiana che desidererei e che è possibile in altre situazioni.

Attraverso l’opera del Cardinale Vicario e dei Vescovi Ausiliari, ai quali esprimo la mia viva gratitudine, mi è possibile però essere concretamente vicino a ciascuno di voi, nelle gioie e nelle difficoltà che accompagnano il cammino di ogni sacerdote. E soprattutto desidero assicurarvi quella vicinanza più profonda e decisiva che unisce il Vescovo ai suoi sacerdoti e ai suoi diaconi, nella preghiera quotidiana. E siate sicuri che realmente nella mia preghiera il clero di Roma è particolarmente presente. E siamo vicini nella fede e nell’amore di Cristo e nell’affidamento a Maria, Madre dell’unico e Sommo Sacerdote. Proprio dalla nostra unione a Cristo e alla Vergine traggono alimento quella serenità e quella fiducia di cui tutti sentiamo il bisogno, sia per il lavoro apostolico sia per la nostra esistenza personale.

Cari sacerdoti e diaconi, ecco alcune considerazioni che desideravo proporre alla vostra attenzione. Prima di dare adesso la parola a voi, per le vostre domande e riflessioni, ho ancora da annunciare una notizia molto gioiosa. Abbiamo una comunicazione arrivata oggi. Ha scritto il Cardinale Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, insieme con Sua Eccellenza Nowak, Segretario della stessa Congregazione:

Instante Em.mo ac Rev.mo Domino D. Camillo S.R.E. Cardinali Ruini, Vicario Generali Suae Sanctitatis pro Dioecesi Romana, Summus Pontifex BENEDICTUS XVI, attentis peculiaribus expositis adiunctis, in audentia eidem Cardinali Vicario Generali die 28 mensis Aprilis huius anni 2005 concessa, dispensavit a tempore quinque annorum exspectationis post mortem Servi Dei Ioannis Pauli II (Caroli Wojtyla), Summi Pontificis, ita ut causa Beatificationis et Canonizationis eiusdem Servi Dei statim incipi posset. Contrariis non obstantibus quibuslibet.

Datum Romae, ex aedibus huius Congregationis de Causis Sanctorum, die 9 mensis Maii A.D. 2005.

Iosephus Card. Saraiva Martins
Praefectus

Eduardus Nowak
Archiepiscopus tit. Lunensis
a Secretis

Allora adesso la parola a voi. Cercherò in quanto posso alla fine di dare una risposta.

Al termine degli interventi dei sacerdoti e di un Diacono della diocesi di Roma, il Santo Padre ha pronunciato le seguenti parole:

Alla fine posso soltanto dire grazie per la ricchezza, per la profondità di questi contributi, nei quali appare un Presbiterio pieno di entusiasmo, di amore per Cristo e di amore per il gregge a noi affidato, di amore per i poveri. E non solo della città di Roma, ma realmente della Chiesa universale, di tutti i nostri fratelli. Grazie anche per l'affetto espresso per me, che mi aiuta tanto. Non mi sento in grado adesso di entrare nei dettagli di quanto è stato detto. Sarebbe bello continuare una vera discussione, e spero che si offrano possibilità di fare una discussione concreta, con domande e risposte. In questo momento esprimo semplicemente la mia gratitudine per tutto. Sento realmente il vostro impegno pastorale, sento come volete costruire la Chiesa di Cristo qui a Roma, sento come riflettete anche su come fare meglio, sento come tutto scaturisce da un grande amore per il Signore e per la Chiesa.

Vorrei solo accennare a tre o quattro punti, che mi sono rimasti nella memoria. Avete parlato di questo intreccio tra romanità e universalità. Mi sembra questo un punto molto importante. Da una parte, questa è una vera Chiesa locale, che deve vivere come tale. Ci sono delle persone che soffrono, che vivono, che vogliono credere o non riescono a credere. Qui deve crescere nelle parrocchie la Chiesa di Roma con la sua grande responsabilità per il mondo, perché porta in sé questo mandato, in certo modo, di «esemplarità», così che appaia nella Chiesa di Roma il volto della Chiesa come tale e sia un modello per le altre Chiese locali. Per poter essere un modello, dobbiamo noi stessi essere una Chiesa locale, che si impegna ogni giorno nel lavoro umile che esige questo essere Chiesa in un determinato luogo e in un determinato tempo.

Avete parlato della parrocchia come struttura fondamentale, aiutata e arricchita dai movimenti. E mi sembra che proprio durante il Pontificato di Papa Giovanni Paolo II si sia creato un fecondo insieme tra l'elemento costante della struttura parrocchiale e l'elemento, diciamo, «carismatico», che offre nuove iniziative, nuove ispirazioni, nuove animazioni. Sotto la guida sapiente del Cardinale Vicario e dei Vescovi ausiliari, tutti i Parroci possono insieme essere realmente responsabili della crescita della parrocchia, assumendo tutti gli elementi che possono venire dai movimenti e dalla realtà vissuta della Chiesa in diverse dimensioni.

Ma volevo parlare ancora di questo intreccio tra romanità e universalità. Uno dei nostri confratelli ha parlato della nostra responsabilità verso l'Africa. Abbiamo visto come a Roma è presente l'Africa, è presente l'India, è presente il cosmo. E questa presenza dei nostri fratelli ci obbliga non solo a pensare a noi, ma a sentire proprio in questo momento storico, in tutte queste circostanze che conosciamo, la presenza degli altri Continenti. Mi sembra che in questo momento abbiamo una particolare responsabilità verso l'Africa, verso l'America Latina e verso l'Asia, dove il Cristianesimo — fatta eccezione per le Filippine — è ancora in grandissima minoranza, anche se cresce in India e si presenta come una forza del futuro. Quindi pensiamo anche proprio a questa responsabilità. L'Africa è un Continente di grandissime potenzialità, di grandissima generosità da parte della gente, con una fede viva che impressiona. Ma dobbiamo confessare che l'Europa ha esportato non solo la fede in Cristo, ma anche tutti i vizi del Vecchio Continente. Ha esportato il senso della corruzione, ha esportato la violenza che adesso sta devastando l'Africa. E dobbiamo riconoscere la nostra responsabilità nel far sì che l'esportazione della fede, che risponde all'attesa intima di ogni uomo, sia più forte dell'esportazione dei vizi dell'Europa. Mi sembra questa una grande responsabilità. Ancora si fa commercio di armi. C'è lo sfruttamento dei tesori di questa terra. Tanto più noi cristiani dobbiamo fare di tutto perché arrivi la fede e con la fede la forza di resistere a questi vizi e di ricostruire un'Africa cristiana, che sarà un'Africa felice, un grande Continente dell'umanesimo nuovo.

Poi è stato detto della necessità, da un parte, di annunciare, di parlare, ma anche di ascoltare. E mi sembra che questo sia importante in un duplice senso. Il sacerdote, il diacono, il catechista, il religioso, la religiosa, devono, da una parte, annunciare, essere testimoni. Ma naturalmente per questo, devono ascoltare, in un duplice senso: da una parte, con l'anima aperta a Cristo, ascoltando interiormente la sua Parola, così che sia assimilata e trasformi e formi il mio essere; e dall'altra ascoltando l'umanità di oggi, il prossimo, l'uomo della mia parrocchia, l'uomo per il quale io porto una certa responsabilità. Naturalmente, ascoltando il mondo di oggi che esiste anche in noi, ascoltiamo tutti i problemi, tutte le difficoltà che si oppongono alla fede. E dobbiamo essere capaci di prendere sul serio questi problemi. San Pietro, primo Vescovo di Roma, nella sua Prima Lettera dice che noi cristiani dobbiamo essere disponibili a dar ragione della nostra fede. Questo presuppone che noi stessi abbiamo capito la ragione della fede, abbiamo realmente «digerito», anche razionalmente, con il cuore, con la saggezza del cuore, questa parola che può realmente essere una risposta per gli altri. Nella Prima Lettera di San Pietro, nel testo greco, con un bel gioco di parole si dice: «apología», risposta del «logos», della ragione della nostra fede. Cioè, il «logos», la ragione della fede, la parola della fede deve divenire risposta della fede. E sappiamo bene che il linguaggio della fede spesso è molto lontano dalla gente di oggi; può avvicinarsi soltanto se diviene in noi il linguaggio del nostro tempo. Noi siamo contemporanei, viviamo in questo tempo, con questi pensieri, con questi affetti. Se è trasformato in noi, può trovare risposta.

Naturalmente riconosco, lo sappiamo tutti, che molti non sono capaci subito di identificarsi, di capire, di assimilare tutto l'insegnamento della Chiesa. Mi sembra importante prima risvegliare questa intenzione di credere con la Chiesa, anche se personalmente qualcuno può non aver ancora assimilato molti dettagli. Occorre avere questa volontà di credere con la Chiesa, avere la fiducia che questa Chiesa — la comunità non solo di duemila anni di pellegrinaggio del popolo di Dio, ma la comunità che abbraccia Cielo e terra, la comunità nella quale sono presenti quindi anche tutti i giusti di tutti i tempi — che questa Chiesa animata dallo Spirito Santo porta in sé realmente la guida dello Spirito e quindi è il vero soggetto della fede. E il singolo individuo si inserisce in questo soggetto, vi aderisce, e quindi, anche se non ancora totalmente penetrato da questo, ha fiducia e partecipa alla fede della Chiesa, vuol credere con la Chiesa. Mi sembra questo il pellegrinaggio permanente della nostra vita: arrivare con il nostro pensiero, con il nostro affetto, con tutta la nostra vita nella comunione della fede. Questo possiamo offrire a tutti, affinché man mano si possano identificare e soprattutto facciano sempre di nuovo questo passo fondamentale di affidarsi alla fede della Chiesa, di inserirsi in questo pellegrinaggio della fede, così da ricevere la luce della fede.

Infine, vorrei ancora una volta ringraziare per il contributo espresso qui riguardo al cristocentrismo, alla necessità che la nostra fede sia sempre nutrita dall'incontro personale con Cristo, da un'amicizia personale con Gesù. Romano Guardini, settant'anni fa, ha detto giustamente che l'essenza del Cristianesimo non è un'idea ma una Persona.

Grandi teologi avevano tentato di descrivere le idee essenziali costitutive del Cristianesimo. Ma il Cristianesimo che avevano delineato alla fine appariva una cosa non convincente. Perché il Cristianesimo è in primo luogo un Avvenimento, una Persona. E nella Persona poi troviamo la ricchezza dei contenuti. Questo è importante.
E qui mi sembra che troviamo anche una risposta ad una difficoltà che si sente spesso oggi circa la missionarietà della Chiesa. Da molti ci viene indicata la tentazione di pensare così riguardo agli altri: «Ma perché non li lasciamo in pace? Hanno la loro autenticità, la loro verità. Noi abbiamo la nostra. Dunque, conviviamo pacificamente, lasciando ciascuno com'è, affinché cerchi nel miglior modo la sua autenticità». Ma come può essere trovata la propria autenticità se realmente nella profondità del nostro cuore c'è l'aspettativa di Gesù e la vera autenticità di ognuno si trova proprio nella comunione con Cristo, e non senza Cristo? Altrimenti detto: se noi abbiamo trovato il Signore e se per noi Egli è la luce e la gioia della vita, siamo sicuri che ad un altro che non ha trovato Cristo non manchi una cosa essenziale e non sia un dovere nostro offrirgli questa realtà essenziale? Poi lasciamo alla guida dello Spirito Santo e alla libertà di ognuno quello che succederà. Ma se siamo convinti e abbiamo l'esperienza del fatto che senza Cristo la vita è incompleta, manca una realtà, la realtà fondamentale, dobbiamo anche essere convinti che non facciamo torto a nessuno se gli mostriamo Cristo e gli offriamo la possibilità di trovare così anche la sua vera autenticità, la gioia di aver trovato la vita.

Alla fine, vorrei dire grazie a tutti i componenti del Presbiterio e della Comunità ecclesiale di Roma, ai Parroci, ai Vice Parroci, a tutti i collaboratori nelle diverse mansioni, ai diaconi, ai catechisti, soprattutto ai religiosi e alle religiose, che sono un po' il cuore anche della vita ecclesiale di una Diocesi. Grazie per questa testimonianza che è stata data.

Andiamo avanti tutti insieme animati dall'amore di Cristo. E così andremo bene!

Copyright 2005 © Libreria Editrice Vaticana

Benedetto XVI rende omaggio a Giovanni Paolo II nel primo anniversario della morte


CAPPELLA PAPALE NEL PRIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Piazza San Pietro
Lunedì, 3 aprile 2006


Cari fratelli e sorelle!

In questi giorni è particolarmente viva nella Chiesa e nel mondo la memoria del Servo di Dio Giovanni Paolo II nel primo anniversario della sua morte. Con la veglia mariana di ieri sera abbiamo rivissuto il momento preciso in cui, un anno fa, avvenne il suo pio transito, mentre oggi ci ritroviamo in questa stessa Piazza San Pietro per offrire il Sacrificio eucaristico in suffragio della sua anima eletta. Saluto con affetto, insieme con i Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti e i religiosi, i numerosi pellegrini giunti da tante parti, specialmente dalla Polonia, per testimoniargli stima, affetto e profonda riconoscenza. Vogliamo pregare per questo amato Pontefice, lasciandoci illuminare dalla Parola di Dio che or ora abbiamo ascoltato.

Nella prima Lettura, tratta dal Libro della Sapienza, ci è stato ricordato qual è il destino finale dei giusti: un destino di felicità sovrabbondante, che ricompensa senza misura per le sofferenze e le prove affrontate nel corso della vita. "Dio li ha provati - afferma l'autore sacro - e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto" (3, 5-6). Il termine "olocausto" fa riferimento al sacrificio in cui la vittima veniva interamente bruciata, consumata dal fuoco; era segno, pertanto, di offerta totale a Dio. Questa espressione biblica ci fa pensare alla missione di Giovanni Paolo II, che ha fatto dono a Dio e alla Chiesa della sua esistenza e ha vissuto la dimensione sacrificale del suo sacerdozio specialmente nella celebrazione dell'Eucaristia. Tra le invocazioni a lui care ve n'era una tratta dalle "Litanie di Gesù Cristo Sacerdote e Vittima", che egli volle porre al termine del libro Dono e Mistero, pubblicato in occasione del 50° del suo Sacerdozio (cfr pp. 113-116): "Iesu, Pontifex qui tradidisti temetipsum Deo oblationem et hostiam - Gesù, Pontefice che consegnasti te stesso a Dio come offerta e vittima, abbi pietà di noi". Quante volte egli ripeté questa invocazione! Essa esprime bene il carattere intimamente sacerdotale di tutta la sua vita. Egli non ha mai fatto mistero del suo desiderio di diventare sempre più una cosa sola con Cristo Sacerdote, mediante il Sacrificio eucaristico, sorgente di infaticabile dedizione apostolica.

Alla base di questa offerta totale di sé stava naturalmente la fede. Nella seconda Lettura, poc'anzi ascoltata, San Pietro utilizza anch'egli l'immagine dell'oro provato col fuoco e la applica alla fede (cfr 1 Pt 1, 7). In effetti, nelle difficoltà della vita è soprattutto la qualità della fede di ciascuno ad essere saggiata e verificata: la sua solidità, la sua purezza, la sua coerenza con la vita. Ebbene, il compianto Pontefice, che Dio aveva dotato di molteplici doni umani e spirituali, passando attraverso il crogiolo delle fatiche apostoliche e della malattia, è apparso sempre più una "roccia" nella fede. Chi ha avuto modo di frequentarlo da vicino ha potuto quasi toccare con mano quella sua fede schietta e salda, che, se ha impressionato la cerchia dei collaboratori, non ha mancato di diffondere, durante il lungo Pontificato, il suo influsso benefico in tutta la Chiesa, in un crescendo che ha raggiunto il suo culmine negli ultimi mesi e giorni della sua vita. Una fede convinta, forte e autentica, libera da paure e compromessi, che ha contagiato il cuore di tanta gente, grazie anche ai numerosi pellegrinaggi apostolici in ogni parte del mondo, e specialmente grazie a quell'ultimo "viaggio" che è stata la sua agonia e la sua morte.

La pagina del Vangelo che è stata proclamata ci aiuta a comprendere un altro aspetto della sua personalità umana e religiosa. Potremmo dire che egli, Successore di Pietro, ha imitato in modo singolare, tra gli Apostoli, Giovanni, il "discepolo amato", che restò sotto la Croce accanto a Maria nell'ora dell'abbandono e della morte del Redentore. Vedendoli lì vicini - narra l'evangelista - Gesù li affidò l'uno all'altra: "Donna, ecco il tuo figlio! ... Ecco la tua madre" (Gv 19, 26-27). Queste parole del Signore morente erano particolarmente care a Giovanni Paolo II. Come l'Apostolo evangelista, anch'egli ha voluto prendere Maria nella sua casa: "et ex illa hora accepit eam discipulus in sua" (Gv 19, 27). L'espressione "accepit eam in sua" è singolarmente densa: indica la decisione di Giovanni di rendere Maria partecipe della propria vita così da sperimentare che, chi apre il cuore a Maria, in realtà è da Lei accolto e diventa suo. Il motto segnato nello stemma del Pontificato di Papa Giovanni Paolo II, Totus tuus, riassume bene questa esperienza spirituale e mistica, in una vita orientata completamente a Cristo per mezzo di Maria: "ad Iesum per Mariam".

Cari fratelli e sorelle, questa sera il nostro pensiero torna con emozione al momento della morte dell'amato Pontefice, ma al tempo stesso il cuore è come spinto a guardare avanti. Sentiamo risuonare nell'animo i suoi ripetuti inviti ad avanzare senza paura sulla strada della fedeltà al Vangelo per essere araldi e testimoni di Cristo nel terzo millennio. Ci tornano alla mente le sue incessanti esortazioni a cooperare generosamente alla realizzazione di una umanità più giusta e solidale, ad essere operatori di pace e costruttori di speranza. Resti sempre fisso il nostro sguardo su Cristo, "lo stesso ieri, oggi e sempre" (Eb 13, 8), che guida saldamente la sua Chiesa. Noi abbiamo creduto al suo amore ed è l'incontro con Lui "che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (cfr Deus caritas est, 1). La forza dello Spirito di Gesù sia per tutti, cari fratelli e sorelle, come lo fu per Papa Giovanni Paolo II, sorgente di pace e di gioia. E la Vergine Maria, Madre della Chiesa, ci aiuti ad essere in ogni circostanza, come lui, apostoli infaticabili del suo divin Figlio e profeti del suo amore misericordioso. Amen!

© Copyright 2006 - Libreria Editrice Vaticana

SANTO ROSARIO PROMOSSO DALLA DIOCESI DI ROMA NEL PRIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL SERVO DI DIO PAPA GIOVANNI PAOLO II

PAROLE DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Piazza San Pietro
Domenica, 2 aprile 2006


Cari fratelli e sorelle!

Ci siamo incontrati questa sera, nel primo anniversario della scomparsa dell’amato Papa Giovanni Paolo II, per questa veglia mariana organizzata dalla Diocesi di Roma. Saluto con affetto tutti voi qui presenti in Piazza San Pietro, ad iniziare dal Cardinale Vicario Camillo Ruini e dai Vescovi Ausiliari, con un pensiero speciale per i Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiose e tutti i fedeli laici, particolarmente i giovani. È veramente l’intera città di Roma che è qui simbolicamente raccolta per questo emozionante momento di riflessione e di preghiera. Un saluto speciale al Cardinale Stanislao Dziwisz, Arcivescovo Metropolita di Cracovia, videocollegato con noi, per molti anni fedele collaboratore del compianto Pontefice. E’ passato già un anno dalla morte del Servo di Dio Giovanni Paolo II, avvenuta quasi a questa medesima ora - erano le 21,37 -, ma la sua memoria continua ad essere quanto mai viva, come testimoniano le tante manifestazioni programmate in questi giorni, in ogni parte del mondo. Egli continua ad essere presente nella nostra mente e nel nostro cuore; continua a comunicarci il suo amore per Dio e il suo amore per l’uomo; continua a suscitare in tutti, specie nei giovani, l’entusiasmo del bene e il coraggio di seguire Gesù e i suoi insegnamenti.

Come riassumere la vita e la testimonianza evangelica di questo grande Pontefice? Potrei tentare di farlo utilizzando due parole: "fedeltà" e "dedizione", fedeltà totale a Dio e dedizione senza riserve alla propria missione di Pastore della Chiesa universale. Fedeltà e dedizione apparse ancor più convincenti e commoventi negli ultimi mesi, quando ha incarnato in sé ciò che ebbe a scrivere nel 1984 nella Lettera apostolica Salvifici doloris: "La sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella «civiltà dell'amore»" (n. 30). La sua malattia affrontata con coraggio ha reso tutti più attenti al dolore umano, ad ogni dolore fisico e spirituale; ha dato alla sofferenza dignità e valore, testimoniando che l'uomo non vale per la sua efficienza, per il suo apparire, ma per se stesso, perché creato e amato da Dio. Con le parole e i gesti il caro Giovanni Paolo II non si è stancato di indicare al mondo che se l'uomo si lascia abbracciare da Cristo, non mortifica la ricchezza della sua umanità; se a Lui aderisce con tutto il cuore, non gli viene a mancare qualcosa. Al contrario, l'incontro con Cristo rende la nostra vita più appassionante. Proprio perché si è avvicinato sempre più a Dio nella preghiera, nella contemplazione, nell'amore per la Verità e la Bellezza, il nostro amato Papa ha potuto farsi compagno di viaggio di ognuno di noi e parlare con autorevolezza anche a quanti sono lontani dalla fede cristiana.

Nel primo anniversario del suo ritorno alla Casa del Padre siamo invitati questa sera ad accogliere nuovamente l'eredità spirituale che egli ci ha lasciato; siamo stimolati, tra l'altro, a vivere ricercando instancabilmente la Verità che sola appaga il nostro cuore. Siamo incoraggiati a non aver paura di seguire Cristo, per recare a tutti l'annuncio del Vangelo, che è fermento di una umanità più fraterna e solidale. Giovanni Paolo II ci aiuti dal cielo a proseguire il nostro cammino, restando docili discepoli di Gesù per essere, come egli stesso amava ripetere ai giovani, "sentinelle del mattino" in questo inizio del terzo millennio cristiano. Invochiamo per questo Maria, la Madre del Redentore, verso la quale egli nutrì sempre tenera devozione.

Mi rivolgo ora ai fedeli che dalla Polonia sono in collegamento con noi.

Jednoczymy się w duchu z Polakami, którzy zgromadzili się a czuwaniu w Krakowie, w Warszawie i w wielu innych miejscach. Żywe jest w nas wszystkich wspomnienie Jana Pawła II i nie gaśnie poczucie jego duchowej obecności. Pamięć o szczególnej miłości, jaką darzył swoich rodaków, zawsze niech będzie dla was światłem na drodze ku Chrystusowi. „Trwajcie mocni w wierze". Serdecznie wam błogosławię.

[Uniamoci in spirito con i polacchi che si sono radunati a Cracovia, a Varsavia e negli altri luoghi per la veglia. È vivo in noi il ricordo di Giovanni Paolo II e non si spegne il senso della sua spirituale presenza. La memoria del particolare amore che nutriva per i suoi connazionali sempre sia per voi la luce sulla via verso Cristo. "Rimanete forti nella fede". Vi benedico di cuore].

Ora imparto di cuore a tutti la mia Benedizione.

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Dio ha sete della nostra fede e del nostro amore.Come padre buono e misericordioso desidera per noi tutto il bene possibile e questo bene è Lui stesso


SANTA PASQUA 2006-2007-2008

PAROLE DEL SANTO PADRE ALLA RECITA DELL'ANGELUS: AUDIO INTEGRALE (Radio Vaticana)

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 24.02.2008

Di ritorno dalla visita pastorale alla parrocchia romana di Santa Maria Liberatrice a Testaccio, a mezzogiorno il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli e i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro per il consueto appuntamento domenicale.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle,

in questa terza Domenica di Quaresima la liturgia ripropone quest’anno uno dei testi più belli e profondi della Bibbia: il dialogo tra Gesù e la Samaritana (cfr Gv 4,5-42).
Sant’Agostino, del quale sto ampiamente parlando nelle catechesi del mercoledì, era giustamente affascinato da questo racconto, e ne fece un commento memorabile.

È impossibile rendere in una breve spiegazione la ricchezza di questa pagina evangelica: occorre leggerla e meditarla personalmente, immedesimandosi in quella donna che, un giorno come tanti altri, andò ad attingere acqua dal pozzo e vi trovò Gesù, seduto accanto, "stanco del viaggio", nella calura del mezzogiorno.

"Dammi da bere", le disse, lasciandola molto stupita: era infatti del tutto inconsueto che un giudeo rivolgesse la parola a una donna samaritana, per di più sconosciuta.

Ma la meraviglia della donna era destinata ad aumentare: Gesù parlò di un’"acqua viva" capace di estinguere la sete e diventare in lei "sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna"; dimostrò inoltre di conoscere la sua vita personale; rivelò che era giunta l’ora di adorare l’unico vero Dio in spirito e verità; e infine le confidò – cosa rarissima – di essere il Messia.

Tutto questo a partire dall’esperienza reale e sensibile della sete. Il tema della sete attraversa tutto il Vangelo di Giovanni: dall’incontro con la Samaritana, alla grande profezia durante la festa delle Capanne (Gv 7,37-38), fino alla Croce, quando Gesù, prima di morire, disse per adempiere la Scrittura: "Ho sete" (Gv 19,28). La sete di Cristo è una porta di accesso al mistero di Dio, che si è fatto assetato per dissetarci, così come si è fatto povero per arricchirci (cfr 2 Cor 8,9).

Sì, Dio ha sete della nostra fede e del nostro amore. Come un padre buono e misericordioso desidera per noi tutto il bene possibile e questo bene è Lui stesso.

La donna di Samaria invece rappresenta l’insoddisfazione esistenziale di chi non ha trovato ciò che cerca: ha avuto "cinque mariti" ed ora convive con un altro uomo; il suo andare e venire dal pozzo per prendere acqua esprime un vivere ripetitivo e rassegnato. Tutto però cambiò per lei quel giorno, grazie al colloquio con il Signore Gesù, che la sconvolse a tal punto da indurla a lasciare la brocca dell’acqua e a correre per dire alla gente del villaggio: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?" (Gv 4,28-29).

Cari fratelli e sorelle, anche noi apriamo il cuore all’ascolto fiducioso della parola di Dio per incontrare, come la Samaritana, Gesù che ci rivela il suo amore e ci dice: il Messia, il tuo salvatore "sono io, che ti parlo" (Gv 4,26). Ci ottenga questo dono Maria, prima e perfetta discepola del Verbo fatto carne.

DOPO L’ANGELUS

Recenti inondazioni hanno devastato ampie zone costiere dell'Ecuador, provocando gravissimi danni, che si aggiungono a quelli già causati dall'eruzione del vulcano Tungurahua. Mentre affido al Signore le vittime di tale calamità, esprimo la mia personale vicinanza a quanti stanno vivendo ore di angoscia e di tribolazione e invito tutti ad una fraterna solidarietà, affinché le popolazioni di quelle zone possano ritornare, quanto prima, alla normalità della vita quotidiana.

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