giovedì 1 marzo 2007

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITA' IN BAVIERA (9-14 SETTEMBRE 2006)


LECTIO MAGISTRALIS DI RATISBONA (12 settembre 2006)

PREGHIERA ALLA MARIENSÄULE, NELLA MARIENPLATZ DI MÜNCHEN

SALUTO E PREGHIERA DEL SANTO PADRE

Conclusa la cerimonia di benvenuto all’aeroporto, il Papa si trasferisce in auto al Seminario Georgianum e, da qui, nella Marienplatz di München per la Preghiera davanti alla "Mariensäule" (Colonna della Madonna) con cui il Santo Padre Benedetto XVI rinnova l’atto di affidamento della Baviera alla Madre di Dio.
Introdotto dagli indirizzi di omaggio del Ministro Presidente della Baviera S.E. il Signor Edmund Stoiber e dell’Arcivescovo di München und Freising, Em.mo Card. Friedrich Wetter, il Papa pronuncia il saluto e la preghiera che riportiamo di seguito:

Signora Cancelliere e Signor Ministro Presidente,
Cari Signori Cardinali,
Cari Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri Signori, gentili Signore,
Cari fratelli e sorelle!

È per me motivo di particolare emozione trovarmi di nuovo in questa bellissima piazza ai piedi della Mariensäule – un luogo, come è stato detto, che già altre due volte è stato testimone di svolte decisive nella mia vita. Qui, come si è detto, trent’anni fa, i fedeli mi accolsero con grande cordialità, ed io affidai alla Madonna il cammino che avrei dovuto percorrere, poiché il passaggio dalla cattedra universitaria al servizio di Arcivescovo di Monaco e Frisinga era un salto enorme, e soltanto con una tale protezione e con l’amore percettibile degli abitanti di Monaco e della Baviera potevo osare di assumere quel ministero succedendo al Cardinale Döpfner. Poi, di nuovo, nel 1982: Qui mi sono congedato; e allora c’era presente l’Arcivescovo della Congregazione per la Dottrina della Fede, Hamer, successivamente Cardinale, ed egli disse: "Gli abitanti di Monaco sono come i napoletani, vogliono toccare l’Arcivescovo e gli vogliono bene". Si è proprio meravigliato di vedere qui a Monaco tanta cordialità, di poter conoscere il cuore bavarese in questo luogo, in cui io, ancora una volta, mi sono affidato alla Madonna.

La ringrazio, illustre e caro Signor Ministro Presidente, per il cordiale indirizzo di benvenuto che mi ha rivolto in nome del Governo e del popolo bavarese. Ringrazio di tutto cuore anche il mio caro successore come Pastore dell'Arcidiocesi di München-Freising, il Signor Cardinale Friedrich Wetter, per le parole calorose con cui qui mi ha salutato. Saluto la Signora Cancelliere, Dr. Angela Merkel, e tutte le Personalità politiche, civili e militari che hanno voluto partecipare a questo incontro di benvenuto e di preghiera. Un particolare saluto desidero riservare ai sacerdoti, specialmente a coloro con cui, come sacerdote e come Vescovo, ho potuto collaborare nella mia Diocesi d'origine, München-Freising. Ma tutti voi, cari compatrioti convenuti in questa piazza, vorrei salutare con grande cordialità e gratitudine. Vi ringrazio per la vostra calorosa accoglienza bavarese, e ringrazio, come ho già fatto all’aeroporto, tutti coloro che hanno collaborato alla preparazione della visita e ora si adoperano affinché tutto possa svolgersi così bene.

Forse mi permettete di tornare in questa occasione su un pensiero che, nelle mie brevi memorie, ho sviluppato nel contesto della mia nomina ad Arcivescovo di Monaco e Frisinga. Dovevo divenire successore di san Corbiniano e lo sono diventato. Della sua leggenda mi ha affascinato fin dalla mia infanzia la storia, secondo la quale un orso avrebbe sbranato l’animale da sella del santo, durante il suo viaggio sulle Alpi. Corbiniano lo rimproverò duramente e, come punizione, gli mise sul dorso tutto il suo bagaglio affinché lo portasse fino a Roma. Così l'orso, caricato col fardello del santo, dovette camminare fino a Roma, e solo lì da Corbiniano fu lasciato libero di andarsene.

Quando, nel 1977, mi trovai davanti alla difficile scelta di accettare o no la nomina ad Arcivescovo di Monaco e Frisinga che mi avrebbe strappato alla mia consueta attività universitaria portandomi verso nuovi compiti e nuove responsabilità, riflettei molto. E proprio allora mi ricordai di questo orso e dell’interpretazione dei versetti 22 e 23 del Salmo 72 [73] che sant'Agostino, in una situazione molto simile alla mia nel contesto della sua ordinazione sacerdotale ed episcopale ha sviluppato e, in seguito, espresso nei suoi sermoni sui Salmi. In questo Salmo, il salmista si chiede perché spesso ai malvagi di questo mondo le cose vanno tanto bene e perché, invece, a molte persone buone le cose vanno così male. E allora il Salmista dice: ero stolto per come la pensavo; davanti a te stavo come una bestia, ma poi sono entrato nel santuario e ho compreso che proprio nelle mie difficoltà ero molto vicino a te e che tu eri sempre con me. Agostino, con amore, ha ripreso spesso questo Salmo e, vedendo nell’espressione "davanti a te stavo come una bestia" (iumentum in latino) un riferimento all'animale da tiro che allora veniva usato in Nordafrica per lavorare la terra, ha riconosciuto in questo "iumentum" se stesso come bestia da tiro di Dio, vi si è visto come uno che sta sotto il peso del suo incarico, la "sarcina episcopalis". Aveva scelto la vita dell'uomo di studio e, come dice in seguito, Dio lo aveva chiamato a fare "l'animale da tiro", il bravo bue che tira l'aratro nel campo di Dio, che fa il lavoro pesante, che gli viene assegnato. Ma poi riconosce: come l’animale da tiro è molto vicino al contadino, sotto la cui guida lavora, così io sono vicinissimo a Dio, perché così lo servo direttamente per l’edificazione del suo Regno, per la costruzione della Chiesa.

Sullo sfondo di questo pensiero del Vescovo di Ippona, l'orso di san Corbiniano mi incoraggia sempre di nuovo a compiere il mio servizio con gioia e fiducia – trent'anni fa come anche adesso nel mio nuovo incarico – dicendo giorno per giorno il mio "sì" a Dio: Sono divenuto per te come una bestia da soma, ma proprio così "io sono con te sempre" (Sal 72[73], 23). L'orso di san Corbiniano, a Roma, fu lasciato libero. Nel mio caso, il "Padrone" ha deciso diversamente. Mi trovo, dunque, di nuovo ai piedi della Mariensäule per implorare l'intercessione e la benedizione della Madre di Dio, non solo per la città di Monaco e per l’amata Baviera, ma per la Chiesa universale e per tutti gli uomini di buona volontà.

Santa Madre del Signore,

i nostri antenati, in un periodo di tribolazione, hanno eretto qui, nel cuore della città di Monaco, la tua immagine, per affidarTi la città e il Paese. Sulle vie del loro quotidiano volevano incontrarTi sempre di nuovo ed imparare da Te come vivere in modo giusto la loro umana esistenza; imparare da Te come poter trovare Dio e così trovare l'accordo tra di loro. Essi Ti hanno donato la corona e lo scettro, che allora erano i simboli della signoria sul Paese, perché sapevano che così il potere e il dominio sarebbero stati nelle mani giuste – nelle mani della Madre.

Il tuo Figlio, poco prima dell'ora del congedo, ha detto ai suoi discepoli: "Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti" (Mc 10,43s). Tu, nell'ora decisiva della tua vita hai detto: "Eccomi, sono la serva del Signore" (Lc 1,38) e hai vissuto tutta la tua esistenza come servizio. Questo Tu continui a fare lungo i secoli della storia. Come una volta, a Cana, intercedesti silenziosamente e con discrezione per gli sposi, così fai sempre: Ti carichi di tutte le preoccupazioni degli uomini e le porti davanti al Signore, davanti al Figlio tuo. Il tuo potere è la bontà. Il tuo potere è il servire.

Insegna a noi – grandi e piccoli, dominatori e servitori – a vivere in questo modo la nostra responsabilità. Aiutaci a trovare la forza per la riconciliazione e per il perdono. Aiutaci a diventare pazienti ed umili, ma anche liberi e coraggiosi, come lo sei stata Tu nell'ora della Croce. Tu porti sulle tue braccia Gesù, il Bambino che benedice, il Bambino che pur è il Signore del mondo. In questo modo, portando Colui che benedice, sei diventata Tu stessa una benedizione. Benedici noi, questa città e questo Paese! Mostraci Gesù, il frutto benedetto del tuo seno! Prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte. Amen!



SANTA MESSA NELLA "NEUE MESSE" DI MÜNCHEN

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

Innanzitutto vorrei ancora una volta salutarvi tutti con affetto: sono lieto, e già l'ho detto, di potermi trovare di nuovo tra voi e celebrare insieme con voi la Santa Messa. Sono lieto di poter ancora una volta visitare i luoghi a me familiari, che hanno avuto un influsso determinante sulla mia vita, formando il mio pensiero e i miei sentimenti: i luoghi nei quali ho imparato a credere ed a vivere. È un'occasione per ringraziare tutti coloro – viventi e morti – che mi hanno guidato e mi hanno accompagnato. Ringrazio Dio per questa bella Patria e per le persone che me l'hanno resa Patria.

Abbiamo appena ascoltato le tre letture bibliche che la liturgia della Chiesa ha scelto per questa domenica. Tutte e tre sviluppano un duplice tema, che in fondo rimane un unico tema, accentuandone – a seconda delle circostanze – l'uno o l'altro aspetto. Tutte e tre le letture parlano di Dio come centro della realtà e come centro della nostra vita personale. "Ecco il vostro Dio!" grida il profeta Isaia nella prima lettura (35,4). La Lettera di Giacomo e il brano evangelico dicono a loro modo la stessa cosa. Vogliono guidarci verso Dio, portandoci così sulla retta via della vita. Con il tema "Dio", però, è connesso il tema sociale: la nostra responsabilità reciproca, la nostra responsabilità per la supremazia della giustizia e dell'amore nel mondo. Questo viene espresso in modo drammatico nella seconda lettura, in cui Giacomo, un parente stretto di Gesù, ci parla. Egli si rivolge ad una comunità, nella quale si comincia ad essere superbi, perché in essa si trovano anche persone benestanti e distinte, mentre c'è il pericolo che la preoccupazione per il diritto dei poveri venga meno. Giacomo, nelle sue parole, lascia intuire l'immagine di Gesù, di quel Dio che si fece uomo e, pur essendo di origine davidica, cioè regale, diventò un uomo semplice tra uomini semplici, non si sedette su un trono, ma alla fine morì nella povertà estrema della Croce. L'amore del prossimo, che in primo luogo è sollecitudine per la giustizia, è la pietra di paragone per la fede e per l'amore di Dio. Giacomo lo chiama "legge regale" (cfr 2,8) lasciando intravedere la parola preferita di Gesù: la regalità di Dio, il dominio di Dio. Questo non indica un regno qualsiasi che arriverà una volta o l'altra, ma significa che Dio deve adesso diventare la forza determinante per la nostra vita e il nostro agire. È questo che domandiamo, quando preghiamo: "Venga il tuo Regno". Non chiediamo una qualche cosa lontana, che noi stessi in fondo non desideriamo neanche di sperimentare. Preghiamo invece perché la volontà di Dio determini ora la nostra volontà e così Dio regni nel mondo; preghiamo dunque perché la giustizia e l'amore diventino forze decisive nell'ordine del mondo. Una tale preghiera si rivolge naturalmente in primo luogo a Dio, ma scuote anche il nostro stesso cuore. In fondo, lo vogliamo davvero? Stiamo orientando la nostra vita in quella direzione? Giacomo chiama la "legge regale", la legge della regalità di Dio, anche "legge della libertà": se tutti pensano e vivono secondo Dio, allora diventiamo tutti uguali, diventiamo liberi e così nasce la vera fraternità. Isaia, nella prima lettura, parlando di Dio – "Ecco il vostro Dio!" – parla al tempo stesso della salvezza per i sofferenti, e Giacomo, parlando dell'ordine sociale come espressione irrinunciabile della nostra fede, parla logicamente anche di Dio, di cui siamo figli.

Ma ora dobbiamo rivolgere la nostra attenzione al Vangelo che racconta la guarigione di un sordo-muto da parte di Gesù. Anche lì incontriamo di nuovo i due aspetti dell'unico tema. Gesù si dedica ai sofferenti, a coloro che sono spinti ai margini della società. Li guarisce e, aprendo loro così la possibilità di vivere e di decidere insieme, li introduce nell'uguaglianza e nella fraternità. Questo riguarda ovviamente tutti noi: Gesù indica a tutti noi la direzione del nostro agire, il come dobbiamo agire. Tutta la vicenda presenta, però, ancora un’altra dimensione, che i Padri della Chiesa hanno messo in luce con insistenza e che concerne in modo speciale anche noi oggi. I Padri parlano degli uomini e per gli uomini del loro tempo. Ma quello che dicono riguarda in modo nuovo anche noi uomini moderni. Non esiste soltanto la sordità fisica, che taglia l'uomo in gran parte fuori della vita sociale. Esiste una debolezza d'udito nei confronti di Dio di cui soffriamo specialmente in questo nostro tempo. Noi, semplicemente, non riusciamo più a sentirlo – sono troppe le frequenze diverse che occupano i nostri orecchi. Quello che si dice di Lui ci sembra pre-scientifico, non più adatto al nostro tempo. Con la debolezza d'udito o addirittura la sordità nei confronti di Dio si perde naturalmente anche la nostra capacità di parlare con Lui o a Lui. In questo modo, però, viene a mancarci una percezione decisiva. I nostri sensi interiori corrono il pericolo di spegnersi. Con il venir meno di questa percezione viene circoscritto poi in modo drastico e pericoloso il raggio del nostro rapporto con la realtà in genere. L'orizzonte della nostra vita si riduce in modo preoccupante.

Il Vangelo ci racconta che Gesù pose le dita negli orecchi del sordomuto, mise un po' della sua saliva sulla lingua del malato e disse: "Effatà" – "Apriti!" L'evangelista ha conservato per noi l'originale parola aramaica che Gesù allora pronunciò, trasferendoci così direttamente in quel momento. Quello che lì viene raccontato è una cosa unica, e tuttavia non appartiene ad un passato lontano: la stessa cosa Gesù la realizza in modo nuovo e ripetutamente anche oggi. Nel nostro Battesimo Egli ha compiuto su di noi questo gesto del toccare e (.) ha detto: "Effatà" – Apriti!", per renderci capaci di sentire Dio e per ridonarci così anche la possibilità di parlare a Lui. Ma questo evento, il Sacramento del Battesimo, non possiede niente di magico. Il Battesimo dischiude un cammino. Ci introduce nella comunità di coloro che sono capaci di ascoltare e di parlare; ci introduce nella comunione con Gesù stesso che, unico, ha visto Dio e quindi ha potuto parlare di Lui (cfr Gv 1,18): mediante la fede, Gesù vuole condividere con noi il suo vedere Dio, il suo ascoltare il Padre e parlare con Lui. Il cammino dell'essere battezzati deve diventare un processo di sviluppo progressivo, nel quale noi cresciamo nella vita di comunione con Dio, raggiungendo così anche uno sguardo diverso sull'uomo e sulla creazione.

Il Vangelo ci invita a renderci conto che in noi esiste un deficit riguardo alla nostra capacità di percezione – una carenza che inizialmente non avvertiamo come tale, perché appunto tutto il resto si raccomanda per la sua urgenza e ragionevolezza; perché apparentemente tutto procede in modo normale, anche se non abbiamo più orecchi ed occhi per Dio e viviamo senza di Lui. Ma è vero che tutto procede semplicemente, quando Dio viene a mancare nella nostra vita e nel nostro mondo? Prima di porre ulteriori domande vorrei raccontare un po' delle mie esperienze negli incontri con i Vescovi di tutto il mondo. La Chiesa cattolica in Germania è grandiosa nelle sue attività sociali, nella disponibilità ad aiutare ovunque ciò si riveli necessario. Sempre di nuovo, durante le loro visite "ad limina", i Vescovi, ultimamente quelli dell'Africa, mi raccontano con gratitudine della generosità dei cattolici tedeschi e mi incaricano di rendermi interprete di questa loro gratitudine – è quanto ora vorrei fare una volta pubblicamente. Anche i Vescovi dei Paesi Baltici, venuti prima delle vacanze, mi hanno parlato di come i cattolici tedeschi li hanno aiutati in modo grandioso nella ricostruzione delle loro chiese gravemente fatiscenti a causa dei decenni di dominio comunista. Ogni tanto, però, qualche Vescovo africano mi dice: "Se presento in Germania progetti sociali, trovo subito le porte aperte. Ma se vengo con un progetto di evangelizzazione, incontro piuttosto riserve". Ovviamente esiste in alcuni l'idea che i progetti sociali siano da promuovere con massima urgenza, mentre le cose che riguardano Dio o addirittura la fede cattolica siano cose piuttosto particolari e meno prioritarie. Tuttavia l'esperienza di quei Vescovi è proprio che l'evangelizzazione deve avere la precedenza, che il Dio di Gesù Cristo deve essere conosciuto, creduto ed amato, deve convertire i cuori, affinché anche le cose sociali possano progredire, affinché s'avvii la riconciliazione, affinché – per esempio – l'AIDS possa essere combattuto affrontando veramente le sue cause profonde e curando i malati con la dovuta attenzione e con amore. Il fatto sociale e il Vangelo sono semplicemente inscindibili tra loro. Dove portiamo agli uomini soltanto conoscenze, abilità, capacità tecniche e strumenti, là portiamo troppo poco. Allora sopravvengono ben presto i meccanismi della violenza, e la capacità di distruggere e di uccidere diventa prevalente, diventa la capacità per raggiungere il potere – un potere che una volta o l'altra dovrebbe portare il diritto, ma che non ne sarà mai capace. In questo modo ci si allontana sempre di più dalla riconciliazione, dall'impegno comune per la giustizia e l'amore. I criteri, secondo i quali la tecnica entra a servizio del diritto e dell'amore, allora si smarriscono; ma è proprio da questi criteri, che tutto dipende: criteri che non sono soltanto teorie, ma che illuminano il cuore portando così la ragione e l'agire sulla retta via.

Le popolazioni dell'Africa e dell'Asia ammirano, sì, le prestazioni tecniche dell’Occidente e la nostra scienza, ma si spaventano di fronte ad un tipo di ragione che esclude totalmente Dio dalla visione dell'uomo, ritenendo questa la forma più sublime della ragione, da insegnare anche alle loro culture. La vera minaccia per la loro identità non la vedono nella fede cristiana, ma invece nel disprezzo di Dio e nel cinismo che considera il dileggio del sacro un diritto della libertà ed eleva l'utilità a supremo criterio per i futuri successi della ricerca. Cari amici, questo cinismo non è il tipo di tolleranza e di apertura culturale che i popoli aspettano e che tutti noi desideriamo! La tolleranza di cui abbiamo urgente bisogno comprende il timor di Dio – il rispetto di ciò che per l’altro è cosa sacra. Ma questo rispetto per ciò che gli altri ritengono sacro presuppone che noi stessi impariamo nuovamente il timor di Dio. Questo senso di rispetto può essere rigenerato nel mondo occidentale soltanto se cresce di nuovo la fede in Dio, se Dio sarà di nuovo presente per noi ed in noi.

La nostra fede non la imponiamo a nessuno. Un simile genere di proselitismo è contrario al cristianesimo. La fede può svilupparsi soltanto nella libertà. Ma è la libertà degli uomini alla quale facciamo appello di aprirsi a Dio, di cercarlo, di prestargli ascolto. Noi qui riuniti chiediamo al Signore con tutto il cuore di pronunciare nuovamente il suo "Effatà!", di guarire la nostra debolezza d'udito per Dio, per il suo operare e per la sua parola, e di renderci capaci di vedere e di ascoltare. Gli chiediamo di aiutarci a ritrovare la parola della preghiera, alla quale ci invita nella liturgia e la cui formula essenziale ci ha insegnato nel Padre nostro.

Il mondo ha bisogno di Dio. Noi abbiamo bisogno di Dio. Di quale Dio abbiamo bisogno? Nella prima lettura, il profeta si rivolge a un popolo oppresso dicendo: "La vendetta di Dio verrà" (vgl 35,4). Noi possiamo facilmente intuire come la gente si immaginava tale vendetta. Ma il profeta stesso rivela poi in che cosa essa consiste: nella bontà risanatrice di Dio. E la spiegazione definitiva della parola del profeta, la troviamo in Colui che è morto per noi sulla Croce: in Gesù, il Figlio di Dio incarnato che qui ci guarda così insistentemente. La sua "vendetta" è la Croce: il "No" alla violenza, "l’amore fino alla fine". È questo il Dio di cui abbiamo bisogno. Non veniamo meno al rispetto di altre religioni e culture, non veniamo meno al profondo rispetto per la loro fede, se confessiamo ad alta voce e senza mezzi termini quel Dio che alla violenza ha opposto la sua sofferenza; che di fronte al male e al suo potere innalza, come limite e superamento, la sua misericordia. A Lui rivolgiamo la nostra supplica, perché Egli sia in mezzo a noi e ci aiuti ad essergli testimoni credibili. Amen!


SANTA MESSA NELLA PIAZZA DEL SANTUARIO DI ALTÖTTING


SANTA MESSA NELL’ISLINGER FELD DI REGENSBURG

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli nel ministero episcopale e sacerdotale!
Cari fratelli e sorelle!

"Chi crede non è mai solo". Permettetemi di riprendere ancora una volta il motto di questi giorni e di esprimere la mia gioia perché qui possiamo vederlo realizzato: la fede ci riunisce e ci dona una festa. Ci dona la gioia in Dio, la gioia per la creazione e per lo stare insieme. Io so che in precedenza questa festa ha richiesto molta fatica e molto lavoro. Attraverso i resoconti dei giornali ho potuto un po' rendermi conto di quante persone hanno impegnato il loro tempo e le loro forze per preparare questa spianata in modo così degno; grazie a loro c’è la Croce qui sulla collina come segno di Dio per la pace nel mondo; le vie di accesso e di partenza sono libere; la sicurezza e l'ordine sono garantite; sono stati approntati alloggi ecc. Non potevo immaginare – e anche adesso lo so solo sommariamente – quanto lavoro fin nei minimi particolari sia stato necessario perché potessimo ora trovarci tutti insieme in questo modo. Per tutto ciò non posso che dire semplicemente "Grazie di cuore!". Il Signore Vi ricompensi per tutto, e la gioia che noi ora possiamo sperimentare grazie alla vostra preparazione, ritorni centuplicata a ciascuno di voi! Mi sono commosso, quando ho sentito quante persone, in particolare delle scuole professionali di Weiden ed Amberg, come anche ditte e singole persone, uomini e donne, hanno collaborato per abbellire anche la mia piccola casa e il mio giardino. Un po' confuso di fronte a tanta bontà, posso anche in questo caso dire soltanto un umile "Grazie!" per un tale impegno. Non avete fatto tutto ciò per un singolo uomo, per la mia povera persona; in definitiva, l'avete fatto nella solidarietà della fede, lasciandovi guidare dall'amore per Cristo e per la Chiesa. Tutto questo è un segno di vera umanità, che nasce dall'essere toccati da Gesù Cristo.

Ci siamo riuniti per una festa della fede. Ora, però, emerge la domanda: Ma che cosa crediamo in realtà? Che cosa significa: credere? Può una tale cosa di fatto ancora esistere nel mondo moderno? Vedendo le grandi "Somme" di teologia redatte nel Medioevo o pensando alla quantità di libri scritti ogni giorno in favore o contro la fede, si è tentati di scoraggiarsi e di pensare che questo è tutto troppo complicato. Alla fine, vedendo i singoli alberi, non si vede più il bosco. Ed è vero: la visione della fede comprende cielo e terra; il passato, il presente, il futuro, l'eternità – e perciò non è mai esauribile. E tuttavia, nel suo nucleo è molto semplice. Il Signore stesso, infatti, ne ha parlato col Padre dicendo: "Hai voluto rivelarlo ai semplici – a coloro che sono capaci di vedere col cuore" (cfr Mt 11,25). La Chiesa, da parte sua, ci offre una piccolissima "Somma", nella quale tutto l'essenziale è espresso: è il cosiddetto "Credo degli Apostoli". Esso viene di solito suddiviso in dodici articoli – secondo il numero dei dodici Apostoli – e parla di Dio, Creatore e Principio di tutte le cose, di Cristo e la sua opera della salvezza, fino alla risurrezione dei morti e alla vita eterna. Ma nella sua concezione di fondo, il Credo è composto solo di tre parti principali, e secondo la sua storia non è nient'altro che un'amplificazione della formula battesimale, che lo stesso Signore risorto consegnò ai discepoli per tutti i tempi quando disse loro: "Andate e ammaestrate tutte le nazioni battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19).

In questa visione si dimostrano due cose: la fede è semplice. Crediamo in Dio – in Dio, principio e fine della vita umana. In quel Dio che entra in relazione con noi esseri umani, che è la nostra origine e il nostro futuro. Così la fede, contemporaneamente, è sempre anche speranza, è la certezza che noi abbiamo un futuro e non cadremo nel vuoto. E la fede è amore, perché l'amore di Dio vuole "contagiarci". Questa è la prima cosa: noi semplicemente crediamo in Dio, e questo porta con sé anche la speranza e l'amore.

Come seconda cosa possiamo costatare: il Credo non è un insieme di sentenze, non è una teoria. È, appunto, ancorato all'evento del Battesimo – ad un evento d'incontro tra Dio e l'uomo. Dio, nel mistero del Battesimo, si china sull'uomo; ci viene incontro e in questo modo ci avvicina gli uni agli altri. Perché il Battesimo significa che Gesù Cristo, per così dire, ci adotta come suoi fratelli e sorelle, accogliendoci con ciò come figli nella famiglia di Dio. In questo modo fa quindi di tutti noi una grande famiglia nella comunità universale della Chiesa. Sì, chi crede non è mai solo. Dio ci viene incontro. Incamminiamoci anche noi verso Dio, allora ci avviciniamo gli uni agli altri! Non lasciamo solo, per quanto sta nelle nostre forze, nessuno dei figli di Dio!

Noi crediamo in Dio. Questa è la nostra decisione di fondo. Ma ora di nuovo la domanda: questo è possibile ancora oggi? È una cosa ragionevole? Fin dall'illuminismo, almeno una parte della scienza s'impegna con solerzia a cercare una spiegazione del mondo, in cui Dio diventi superfluo. E così Egli dovrebbe diventare inutile anche per la nostra vita. Ma ogniqualvolta poteva sembrare che ci si fosse quasi riusciti – sempre di nuovo appariva evidente: i conti non tornano! I conti sull'uomo, senza Dio, non tornano, e i conti sul mondo, su tutto l’universo, senza di Lui non tornano. In fin dei conti, resta l'alternativa: che cosa esiste all'origine? La Ragione creatrice, lo Spirito Creatore che opera tutto e suscita lo sviluppo, o l'Irrazionalità che, priva di ogni ragione, stranamente produce un cosmo ordinato in modo matematico e anche l'uomo, la sua ragione. Questa, però, sarebbe allora soltanto un risultato casuale dell'evoluzione e quindi, in fondo, anche una cosa irragionevole. Noi cristiani diciamo: "Credo in Dio Padre, Creatore del cielo e della terra" – credo nello Spirito Creatore. Noi crediamo che all'origine c'è il Verbo eterno, la Ragione e non l'Irrazionalità. Con questa fede non abbiamo bisogno di nasconderci, non dobbiamo temere di trovarci con essa in un vicolo cieco. Siamo lieti di poter conoscere Dio! E cerchiamo di rendere accessibile anche agli altri la ragionevolezza della fede, come, nella sua Prima Lettera, san Pietro esplicitamente ha esortato a fare i cristiani del suo tempo e con loro anche noi (cfr 3,15)!

Noi crediamo in Dio. Lo affermano le parti principali del Credo e lo sottolinea soprattutto la sua prima parte. Ma ora segue subito la seconda domanda: in quale Dio? Ebbene, crediamo appunto in quel Dio che è Spirito Creatore, Ragione creativa, da cui proviene tutto e da cui proveniamo anche noi. La seconda parte del Credo ci dice di più. Questa Ragione creativa è Bontà. È Amore. Essa possiede un volto. Dio non ci lascia brancolare nel buio. Si è mostrato come uomo. Egli è tanto grande da potersi permettere di diventare piccolissimo. "Chi ha visto me ha visto il Padre", dice Gesù (Gv 14,9). Dio ha assunto un volto umano. Ci ama fino al punto da lasciarsi per noi inchiodare sulla Croce, per portare le sofferenze dell’umanità fino al cuore di Dio. Oggi, che conosciamo le patologie e le malattie mortali della religione e della ragione, le distruzioni dell’immagine di Dio a causa dell’odio e del fanatismo, è importante dire con chiarezza in quale Dio noi crediamo e professare convinti questo volto umano di Dio. Solo questo ci libera dalla paura di Dio – un sentimento dal quale, in definitiva, nacque l’ateismo moderno. Solo questo Dio ci salva dalla paura del mondo e dall’ansia di fronte al vuoto della propria esistenza. Solo guardando a Gesù Cristo, la nostra gioia in Dio raggiunge la sua pienezza, diventa gioia redenta. Volgiamo durante questa celebrazione solenne dell’Eucaristia il nostro sguardo sul Signore che qui davanti a noi è innalzato sulla croce e chiediamo a Lui la grande gioia che, nell’ora del suo congedo, Egli ha promesso ai discepoli (cfr Gv 16,24)!

La seconda parte del Credo si conclude con la prospettiva del Giudizio finale e la terza con quella della risurrezione dei morti. Giudizio – non è che con ciò ci viene inculcata nuovamente la paura? Ma, non desideriamo forse tutti che un giorno sia fatta giustizia per tutti i condannati ingiustamente, per quanti hanno sofferto lungo la vita e poi da una vita piena di dolore sono stati inghiottiti nella morte? Non vogliamo forse tutti che l’eccesso di ingiustizia e di sofferenza, che vediamo nella storia, alla fine si dissolva; che tutti in definitiva possano diventare lieti, che tutto ottenga un senso? Questa affermazione del diritto, questo congiungimento di tanti frammenti di storia che sembrano privi di senso, così da integrarli in un tutto in cui dominino la verità e l’amore: è questo che s’intende col concetto di Giudizio del mondo. La fede non vuol farci paura; vuole però chiamarci alla responsabilità! Non dobbiamo sprecare la nostra vita, né abusare di essa; neppure dobbiamo tenerla semplicemente per noi stessi; di fronte all’ingiustizia non dobbiamo restare indifferenti, diventandone conniventi o addirittura complici. Dobbiamo percepire la nostra missione nella storia e cercare di corrispondervi. Non paura ma responsabilità – responsabilità e preoccupazione per la nostra salvezza, e per la salvezza di tutto il mondo sono necessarie. A ciò, ciascuno deve dare il proprio contributo. Quando, però, responsabilità e preoccupazione tendono a diventare paura, allora ricordiamoci della parola di san Giovanni: "Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto" (1 Gv 2,1). "Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri – Dio è più grande del nostro cuore ed Egli conosce ogni cosa" (1 Gv 3,20).

Celebriamo oggi la festa del "Nome di Maria". A quante portano questo nome – la mia mamma e mia sorella ne facevano parte, come il Vescovo ha ricordato – vorrei quindi esprimere i miei più cordiali auguri per questo loro onomastico. Maria, la Madre del Signore, dal popolo fedele ha ricevuto il titolo di Advocata: lei è la nostra avvocata presso Dio. Così la conosciamo fin dalle nozze di Cana: come la donna benigna, piena di sollecitudine materna e di amore, la donna che avverte le necessità altrui e, per aiutare, le porta davanti al Signore. Oggi abbiamo sentito nel Vangelo, come il Signore la dona come madre al discepolo prediletto e, in lui, a tutti noi. In ogni epoca, i cristiani hanno accolto con gratitudine questo testamento di Gesù, e presso la Madre hanno trovato sempre di nuovo quella sicurezza e quella fiduciosa speranza, che ci rendono lieti in Dio e gioiosi nella nostra fede in Lui. Accogliamo anche noi Maria come la stella della nostra vita, che ci introduce nella grande famiglia di Dio! Sì, chi crede non è mai solo. Amen!


INCONTRO CON RAPPRESENTANTI DELLA SCIENZA ALL’UNIVERSITÀ DI REGENSBURG

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INCONTRO CON SACERDOTI E DIACONI PERMANENTI NELLA CATTEDRALE DI FREISING

Alle ore 9 di questa mattina, lasciato il Seminario Maggiore di Regensburg, il Papa si trasferisce in elicottero a Freising dove, alle 10.45, incontra i Sacerdoti e i Diaconi permanenti riuniti nella Cattedrale. Qui, introdotto dal saluto dell’Arcivescovo di München und Freising, Em.mo Card. Friedrich Wetter, il Santo Padre Benedetto XVI pronuncia il discorso che riportiamo di seguito:

DISCORSO DEL SANTO PADRE (pronunciato a braccio)

Cari Confratelli nel ministero vescovile e sacerdotale,
Cari fratelli e sorelle!

È questo per me un momento di gioia e di grande gratitudine – gratitudine per tutto ciò che durante questa visita pastorale in Baviera ho potuto vivere e ricevere. Tanta cordialità, tanta fede, tanta gioia in Dio – una esperienza che mi ha colpito profondamente e mi accompagnerà come fonte di nuovo vigore. Gratitudine, poi, in particolare per il fatto che ora, alla fine, sono potuto ancora tornare nel Duomo di Freising ed ho potuto vederlo nel suo nuovo, splendido aspetto. Grazie al Cardinale Wetter, grazie agli altri due Vescovi bavaresi, grazie a tutti coloro che hanno collaborato, grazie alla Provvidenza che ha reso possibile il restauro del Duomo che si presenta ora in questa sua nuova bellezza! Ora, che mi trovo in questa Cattedrale, riemergono nel mio intimo tanti ricordi alla vista degli antichi compagni e dei giovani sacerdoti che trasmettono il messaggio, la fiaccola della fede. Emergono i ricordi della mia ordinazione, a cui il Cardinale Wetter ha accennato: quando ero qui prostrato per terra e, come avvolto dalle Litanie di tutti i santi, dall’intercessione di tutti i santi, mi rendevo conto che su questa via non siamo soli, ma che la grande schiera dei santi cammina con noi e i santi ancora vivi, i fedeli di oggi e di domani, ci sostengono e ci accompagnano. Poi vi fu il momento dell’imposizione delle mani… e infine, quando il Cardinale Faulhaber ci gridò: "Iam non dico vos servos, sed amicos" – "Non vi chiamo più servi, ma amici", allora ho sperimentato l’ordinazione sacerdotale come iniziazione nella comunità degli amici di Gesù, che sono chiamati a stare con Lui e ad annunciare il suo messaggio.

Poi il ricordo che qui io stesso ho potuto ordinare sacerdoti e diaconi, che sono adesso impegnati nel servizio del Vangelo e per molti anni – ormai sono decenni – hanno trasmesso il messaggio e lo trasmettono tuttora. E poi penso naturalmente alle processioni di san Corbiniano. Allora era ancora consuetudine di aprire il reliquiario. E poiché il Vescovo aveva il suo posto dietro l'urna, potevo guardare direttamente il cranio di san Corbiniano e vedermi così nella processione dei secoli che percorre la via della fede – potevo vedere che, in questa grande "processione dei tempi", possiamo camminare anche noi facendo sì che essa avanzi verso il futuro, una cosa che diventava chiara quando il corteo passava nel chiostro vicino ai tanti bambini lì raccolti, ai quali potevo tracciare sulla fronte la croce di benedizione. In questo momento facciamo ancora quell'esperienza, che cioè stiamo nella grande processione, nel pellegrinaggio del Vangelo, che possiamo essere insieme pellegrini e guide di questo pellegrinaggio e che, seguendo coloro che hanno seguito Cristo, seguiamo con loro Lui stesso ed entriamo così nella luce.

Dovendo ora introdurmi nell'omelia, vorrei soffermarmi su due punti soltanto. Il primo è relativo al Vangelo appena proclamato – un brano che tutti noi abbiamo già tante volte ascoltato, interpretato e meditato nel nostro cuore. "La messe è molta", dice il Signore. E quando dice: "…è molta", non si riferisce soltanto a quel momento e a quelle vie della Palestina su cui pellegrinava durante la sua vita terrena; è parola che vale anche per oggi. Ciò significa: nei cuori degli uomini cresce una messe. Ciò significa, ancora una volta: nel loro intimo c’è l’attesa di Dio; l’attesa di una direttiva che sia luce, che indichi la via. L’attesa di una parola che sia più che una semplice parola. La speranza, l’attesa dell’amore che, al di là dell’attimo presente, eternamente ci sostenga e ci accolga. La messe è molta e attende operai in tutte le generazioni. E in tutte le generazioni, pur se in modo differente, vale sempre anche l'altra parola: gli operai sono pochi.

"Pregate il padrone della messe che mandi operai!" Ciò significa: la messe c’è, ma Dio vuole servirsi degli uomini, perché essa venga portata nel granaio. Dio ha bisogno di uomini. Ha bisogno di persone che dicano: Sì, io sono disposto a diventare il Tuo operaio per la messe, sono disposto ad aiutare affinché questa messe che sta maturando nei cuori degli uomini possa veramente entrare nei granai dell’eternità e diventare perenne comunione divina di gioia e di amore. "Pregate il padrone della messe!" Questo vuol dire anche: non possiamo semplicemente "produrre" vocazioni, esse devono venire da Dio. Non possiamo, come forse in altre professioni, per mezzo di una propaganda ben mirata, mediante, per cosi dire, strategie adeguate, semplicemente reclutare delle persone. La chiamata, partendo dal cuore di Dio, deve sempre trovare la via al cuore dell’uomo. E tuttavia: proprio perché arrivi nei cuori degli uomini è necessaria anche la nostra collaborazione. Chiederlo al padrone della messe significa certamente innanzitutto pregare per questo, scuotere il suo cuore e dire: "Fallo per favore! Risveglia gli uomini! Accendi in loro l’entusiasmo e la gioia per il Vangelo! Fa' loro capire che questo è il tesoro più prezioso di ogni altro tesoro e che colui che l’ha scoperto deve trasmetterlo!"

Noi scuotiamo il cuore di Dio. Ma il pregare Dio non si realizza soltanto mediante parole di preghiera; comporta anche un mutamento della parola in azione, affinché dal nostro cuore orante scocchi poi la scintilla della gioia in Dio, della gioia per il Vangelo, e susciti in altri cuori la disponibilità a dire un loro "sì". Come persone di preghiera, colme della Sua luce, raggiungiamo gli altri e, coinvolgendoli nella nostra preghiera, li facciamo entrare nel raggio della presenza di Dio, il quale farà poi la sua parte. In questo senso vogliamo sempre di nuovo pregare il Padrone della messe, scuotere il suo cuore, e con Dio toccare nella nostra preghiera anche i cuori degli uomini, perché Egli, secondo la sua volontà, vi faccia maturare il "sì", la disponibilità; la costanza, attraverso tutte le confusioni del tempo, attraverso il calore della giornata ed anche attraverso il buio della notte, di perseverare fedelmente nel servizio, traendo proprio da esso continuamente la consapevolezza che – anche se faticoso – questo sforzo è bello, è utile, perché conduce all’essenziale, ad ottenere cioè che gli uomini ricevano ciò che attendono: la luce di Dio e l’amore di Dio.

Il secondo punto che vorrei trattare è una questione pratica. Il numero dei sacerdoti è diminuito, anche se in questo momento possiamo costatare che tuttavia ci siamo veramente, che pure oggi ci sono sacerdoti giovani ed anziani e che esistono giovani che si incamminano verso il sacerdozio. Ma i gravami sono diventati più pesanti: gestire due, tre, quattro parrocchie insieme, e questo con tutti i nuovi compiti che si sono aggiunti – è cosa che può risultare scoraggiante. Spesso mi si presenta la domanda, anzi ogni singolo la pone a se stesso e ai Confratelli: ma come possiamo farcela? Non è questa forse una professione che ci consuma, nella quale alla fine non possiamo più provare gioia vedendo che, per quanto possiamo fare, non basta mai? Tutto questo ci sovraffatica!

Che cosa si può rispondere? Naturalmente non posso dare delle ricette infallibili; vorrei tuttavia comunicare alcune indicazioni fondamentali. La prima la prendo dalla Lettera ai Filippesi (cfr 2, 5-8), dove san Paolo dice a tutti – e naturalmente in modo particolare a quanti lavorano nel campo di Dio – che dobbiamo "avere in noi i sentimenti di Gesù Cristo". I suoi sentimenti erano tali che Egli, di fronte al destino dell’uomo, quasi non sopportò più la sua esistenza nella gloria, ma dovette scendere e assumere l’incredibile, l’intera miseria di una vita umana fino all’ora della sofferenza sulla croce. Questo è il sentimento di Gesù Cristo: sentirsi spinto a portare agli uomini la luce del Padre, ad aiutarli perché con loro ed in loro si formi il Regno di Dio. E il sentimento di Gesù Cristo consiste contemporaneamente nel fatto che Egli resta sempre radicato profondamente nella comunione col Padre, immerso in essa. Lo vediamo, per così dire, dall'esterno nel fatto che gli Evangelisti ci raccontano ripetutamente che Egli si ritira sul monte, da solo, a pregare. Il suo operare nasce dal suo essere immerso nel Padre: proprio per questo suo essere immerso nel Padre, Egli deve uscire e percorrere tutti i villaggi e le città per annunciare il Regno di Dio, cioè la sua presenza, il suo "esserci" in mezzo a noi; perché il Regno diventi presente in noi e, mediante noi, trasformi il mondo; perché la sua volontà sia fatta come in cielo così in terra e il cielo arrivi sulla terra. Questi due aspetti fanno parte dei sentimenti di Gesù Cristo. Da una parte, conoscere Dio dal di dentro, conoscere Cristo dal di dentro, stare insieme con Lui; solo se questo si realizza, scopriamo veramente il "tesoro". Dall’altra parte, dobbiamo anche andare verso gli uomini. Il "tesoro" non possiamo più tenerlo per noi stessi, ma dobbiamo trasmetterlo.

Questa indicazione fondamentale con i suoi due aspetti vorrei tradurre ulteriormente nel concreto: occorre che vi sia l’insieme di zelo e di umiltà, del riconoscimento cioè dei propri limiti. Da una parte lo zelo: se veramente incontriamo Cristo sempre di nuovo, non possiamo tenercelo per noi stessi. Ci sentiamo spinti ad andare verso i poveri, gli anziani, i deboli, e così pure verso i bambini e i giovani, verso le persone nel pieno della loro vita; ci sentiamo spinti ad essere "annunciatori", apostoli di Cristo. Ma questo zelo, per non diventare vuoto e logorante per noi, deve collegarsi con l’umiltà, con la moderazione, con l’accettazione dei nostri limiti. Quante cose dovrebbero essere fatte – vedo che non ne sono capace. Ciò vale per i parroci – almeno immagino, in quale misura – ciò vale anche per il Papa: egli dovrebbe fare tante cose! E le mie forze semplicemente non bastano. Così devo imparare a fare ciò che posso e lasciare il resto a Dio e ai miei collaboratori e dire: "In definitiva sei Tu che devi farlo, poiché la Chiesa è Tua. E Tu mi dai solo l’energia che possiedo. Sia donata a Te, perché proviene da Te; il resto, appunto, lo lascio a Te". Credo, che l’umiltà di accettare questo – "qui finisce la mia energia, lascio a Te, Signore, di fare il resto" – tale umiltà è decisiva. Ed avere poi la fiducia: Egli mi donerà anche i collaboratori che mi aiuteranno e faranno quello che io non riesco a fare.

E ancora, "tradotto" a un terzo livello, questo insieme di zelo e di moderazione significa poi anche l’insieme di servizio in tutte le sue dimensioni e di interiorità. Possiamo servire gli altri, possiamo donare solo se personalmente anche riceviamo, se noi stessi non ci svuotiamo. E la Chiesa per questo ci propone degli spazi liberi che, da una parte, sono spazi per un nuovo "espirare" ed "inspirare" e, d’altra parte, diventano centro e fonte del servire. Vi è innanzitutto la celebrazione quotidiana della Santa Messa: non compiamola come una cosa di routine, che in qualche modo, "devo fare", ma celebriamola "dal di dentro"! Immedesimiamoci con le parole, con le azioni, con l’avvenimento che lì è realtà! Se noi celebriamo la Messa pregando, se il nostro dire: "Questo è il mio Corpo" nasce veramente dalla comunione con Gesù Cristo che ci ha imposto le mani e ci ha autorizzato a parlare con il suo stesso Io, se noi realizziamo l'Eucaristia con intima partecipazione nella fede e nella preghiera, allora essa non si riduce ad un dovere esterno, allora l’"ars celebrandi" viene da sé, perché consiste appunto nel celebrare partendo dal Signore e in comunione con Lui, e così nel modo giusto anche per gli uomini. Allora noi stessi ne riceviamo in dono sempre di nuovo un grande arricchimento e al contempo trasmettiamo agli uomini più di quello che è nostro, vale a dire: la presenza del Signore.

L’altro spazio libero che la Chiesa, per così dire, ci impone e così anche ci libera donandocelo, è la Liturgia delle Ore. Cerchiamo di recitarla come vera preghiera, preghiera in comunione con l’Israele dell’Antica e della Nuova Alleanza, preghiera in comunione con gli oranti di tutti i secoli, preghiera in comunione con Gesù Cristo, preghiera che sale dall’Io più profondo, dal soggetto più profondo di queste preghiere. E pregando così, coinvolgiamo in questa preghiera anche gli altri uomini che per questo non hanno il tempo o l’energia o la capacità. Noi stessi, come persone oranti, preghiamo in rappresentanza degli altri, svolgendo con ciò un ministero pastorale di primo grado. Questo non è un ritirarsi nel privato, ma è una priorità pastorale, è un’azione pastorale, nella quale noi stessi diventiamo nuovamente sacerdoti, veniamo nuovamente colmati di Cristo, includiamo gli altri nella comunione della Chiesa orante e, al contempo, lasciamo emanare la forza della preghiera, la presenza di Gesù Cristo, in questo mondo.

Il motto di questi giorni era: "Chi crede, non è mai solo". Questa parola vale e deve valere proprio anche per noi sacerdoti, per ciascuno di noi. E di nuovo vale sotto un duplice aspetto: chi è sacerdote non è mai solo, perché Gesù Cristo è sempre con lui. Egli è con noi; stiamo anche noi con Lui! Ma deve valere anche nell’altro senso: chi si fa sacerdote, viene introdotto in un presbiterio, in una comunità di sacerdoti con il Vescovo. Ed egli è sacerdote nell’essere in comunione con i suoi confratelli. Impegniamoci perché questo non resti soltanto un precetto teologico e giuridico, ma diventi esperienza concreta per ciascuno di noi. Doniamoci a vicenda questa comunione, doniamola specialmente a coloro che, sappiamo, soffrono di solitudine, sono oppressi da interrogativi e problemi, forse da dubbi e incertezze! Doniamoci a vicenda questa comunione, allora sperimenteremo sempre di nuovo in questo essere con l’altro, con gli altri, tanto di più e in modo più gioioso anche la comunione con Gesù Cristo! Amen.

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Vedi anche:

Cerimonia di benvenuto all’aeroporto internazionale Franz Joseph Strauss di München (9 settembre 2006)

Celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di München (10 settembre 2006)

Vespri Mariani con religiosi e seminaristi della Baviera nella Basilica di Sant’Anna ad Altötting (11 settembre 2006)

LECTIO MAGISTRALIS DI RATISBONA (12 settembre 2006)

Celebrazione ecumenica dei Vespri nel Duomo di Regensburg (12 settembre 2006)

Saluto durante la benedizione del nuovo organo della Alte Kapelle di Regensburg (13 settembre 2006)

Cerimonia di congedo all’aeroporto internazionale Franz Joseph Strauss di München (14 settembre 2006)

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