giovedì 31 gennaio 2008

La Chiesa incoraggia il progresso scientifico ma sente il dovere di illuminare le coscienze affinchè esso sia rispettoso di ogni essere umano


UDIENZA AI PARTECIPANTI ALLA SESSIONE PLENARIA DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE , 31.01.2008

Alle ore 12 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti alla Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede e rivolge loro il discorso che riportiamo di seguito:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
carissimi e fedeli Collaboratori!


E’ per me motivo di grande gioia incontrarvi in occasione della vostra Sessione Plenaria. Posso così parteciparvi i sentimenti di profonda riconoscenza e di cordiale apprezzamento che provo per il lavoro che il vostro Dicastero svolge al servizio del ministero di unità, affidato in special modo al Romano Pontefice. E’ un ministero che si esprime primariamente in funzione dell’unità di fede, poggiante sul "sacro deposito", di cui il Successore di Pietro è il primo custode e difensore (cfr Cost. ap. Pastor Bonus, 11).

Ringrazio il Signor Cardinale William Levada per i sentimenti che, a nome di tutti, ha espresso nel suo indirizzo e per il richiamo dei temi che sono stati oggetto di alcuni Documenti della vostra Congregazione in questi ultimi anni e delle tematiche che tuttora impegnano l’esame del Dicastero.

In particolare, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato l’anno scorso due Documenti importanti, che hanno offerto alcune precisazioni dottrinali su aspetti essenziali della dottrina sulla Chiesa e sull’Evangelizzazione.

Sono precisazioni necessarie per lo svolgimento corretto del dialogo ecumenico e del dialogo con le religioni e le culture del mondo. Il primo Documento porta il titolo "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa" e ripropone anche nelle formulazioni e nel linguaggio l’insegnamento del Concilio Vaticano II, in piena continuità con la dottrina della Tradizione cattolica.

Viene così confermato che l’una e unica Chiesa di Cristo ha la sua sussistenza, permanenza e stabilità nella Chiesa Cattolica e che pertanto l’unità, l’indivisibilità e l’indistruttibilità della Chiesa di Cristo non vengono annullate dalle separazioni e divisioni dei cristiani.

Accanto a questa precisazione dottrinale fondamentale, il Documento ripropone l’uso linguistico corretto di certe espressioni ecclesiologiche, che rischiano di essere fraintese, e richiama a tal fine l’attenzione sulla differenza che ancora permane tra le diverse Confessioni cristiane nei riguardi della comprensione dell’essere Chiesa, in senso propriamente teologico.

Ciò, lungi dall’impedire l’impegno ecumenico autentico, sarà di stimolo perché il confronto sulle questioni dottrinali avvenga sempre con realismo e piena consapevolezza degli aspetti che ancora separano le Confessioni cristiane, oltre che nel riconoscimento gioioso delle verità di fede comunemente professate e della necessità di pregare incessantemente per un cammino più solerte verso una maggiore e alla fine piena unità dei cristiani.

Coltivare una visione teologica che ritenesse l’unità e identità della Chiesa come sue doti "nascoste in Cristo", con la conseguenza che storicamente la Chiesa esisterebbe di fatto in molteplici configurazioni ecclesiali, riconciliabili soltanto in prospettiva escatologica, non potrebbe che generare un rallentamento e ultimamente la paralisi dell’ecumenismo stesso.

L’affermazione del Concilio Vaticano II che la vera Chiesa di Cristo "sussiste nella Chiesa cattolica" (Cost. dogm. Lumen gentium, 8) non riguarda soltanto il rapporto con le Chiese e comunità ecclesiali cristiane, ma si estende anche alla definizione dei rapporti con le religioni e le culture del mondo. Lo stesso Concilio Vaticano II nella Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa afferma che "questa unica vera religione sussiste nella Chiesa cattolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il compito di diffonderla a tutti gli uomini" (n. 1).

La "Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione" - l’altro Documento pubblicato dalla vostra Congregazione nel dicembre 2007 -, a fronte del rischio di un persistente relativismo religioso e culturale, ribadisce che la Chiesa, nel tempo del dialogo tra le religioni e le culture, non si dispensa dalla necessità dell’evangelizzazione e dell’attività missionaria verso i popoli, né cessa di chiedere agli uomini di accogliere la salvezza offerta a tutte le genti. Il riconoscimento di elementi di verità e bontà nelle religioni del mondo e della serietà dei loro sforzi religiosi, lo stesso colloquio e spirito di collaborazione con esse per la difesa e la promozione della dignità della persona e dei valori morali universali, non possono essere intesi come una limitazione del compito missionario della Chiesa, che la impegna ad annunciare incessantemente Cristo come la via, la verità e la vita (cfr Gv 14,6).

Vi invito inoltre, carissimi, a seguire con particolare attenzione i problemi difficili e complessi della bioetica. Le nuove tecnologie biomediche, infatti, interessano non soltanto alcuni medici e ricercatori specializzati, ma vengono divulgate attraverso i moderni mezzi di comunicazione sociale, provocando attese ed interrogativi in settori sempre più vasti della società. Il Magistero della Chiesa certamente non può e non deve intervenire su ogni novità della scienza, ma ha il compito di ribadire i grandi valori in gioco e di proporre ai fedeli e a tutti gli uomini di buona volontà principi e orientamenti etico-morali per le nuove questioni importanti.

I due criteri fondamentali per il discernimento morale in questo campo sono a) il rispetto incondizionato dell’essere umano come persona, dal suo concepimento fino alla morte naturale, b) il rispetto dell’originalità della trasmissione della vita umana attraverso gli atti propri dei coniugi.

Dopo la pubblicazione nel 1987 dell’Istruzione Donum vitae, che aveva enunciato tali criteri, molti hanno criticato il Magistero della Chiesa, denunciandolo come se fosse un ostacolo alla scienza e al vero progresso dell’umanità.

Ma i nuovi problemi connessi, ad esempio, con il congelamento degli embrioni umani, con la riduzione embrionale, con la diagnosi pre-impiantatoria, con le ricerche sulle cellule staminali embrionali e con i tentativi di clonazione umana, mostrano chiaramente come, con la fecondazione artificiale extra-corporea, sia stata infranta la barriera posta a tutela della dignità umana. Quando esseri umani, nello stato più debole e più indifeso della loro esistenza, sono selezionati, abbandonati, uccisi o utilizzati quale puro "materiale biologico", come negare che essi siano trattati non più come un "qualcuno", ma come un "qualcosa", mettendo così in questione il concetto stesso di dignità dell’uomo?

Certamente la Chiesa apprezza e incoraggia il progresso delle scienze biomediche che aprono prospettive terapeutiche finora sconosciute, mediante, ad esempio, l’uso delle cellule staminali somatiche oppure mediante le terapie volte alla restituzione della fertilità o alla cura delle malattie genetiche.

Nel contempo essa sente il dovere di illuminare le coscienze di tutti, affinché il progresso scientifico sia veramente rispettoso di ogni essere umano, a cui va riconosciuta la dignità di persona, essendo creato ad immagine di Dio.

Lo studio su tali tematiche, che ha impegnato in special modo la vostra Assise in questi giorni, contribuirà certamente a promuovere la formazione della coscienza di tanti nostri fratelli, secondo quanto afferma il dettato del Concilio Vaticano II nella Dichiarazione Dignitatis Humanae: "I cristiani... nella formazione della loro coscienza devono considerare diligentemente la dottrina sacra e certa della Chiesa. Infatti per volontà di Cristo la Chiesa cattolica è maestra di verità, e il suo compito è di annunziare e di insegnare in modo autentico la verità che è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare e di confermare con la sua autorità i principi dell'ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana" (n. 14).

Nell’incoraggiarvi a proseguire nel vostro impegnativo ed importante lavoro, vi esprimo anche in questa circostanza la mia spirituale vicinanza, ed imparto di cuore a tutti voi, in pegno di affetto e di gratitudine, la Benedizione Apostolica.

© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana

mercoledì 30 gennaio 2008

Fede e ragione non sono da separare né da contrapporre,ma devono sempre andare insieme.Per Agostino esse sono le due forze che ci portano a conoscere


I PADRI DELLA CHIESA NELLA CATECHESI DI PAPA BENEDETTO XVI

Agostino era un uomo di passione e di intelligenza altissima che cercava la verità e incontrò Cristo (prima catechesi su Sant'Agostino)

Agostino parlava della “vecchiaia del mondo”. Se il mondo invecchia, Cristo è perpetuamente giovane! (seconda catechesi su Sant'Agostino)

Per Agostino, più importante del fare grandi opere di respiro alto, teologico, era portare il messaggio cristiano ai semplici... (quarta catechesi su Sant'Agostino)

La conversione di Agostino non è stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall’inizio, ma un vero e proprio cammino, che resta per noi un modello (quinta catechesi su Sant'Agostino)

Vedi anche:

VISITA DEL SANTO PADRE A VIGEVANO E PAVIA (21-22 APRILE 2007): LO SPECIALE DEL BLOG

Sant'Agostino, modello ideale nel "rapporto tra fede e ragione" (Radio Vaticana)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 30 gennaio 2008


Sant'Agostino di Ippona

Cari amici,

dopo la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani ritorniamo oggi alla grande figura di sant'Agostino.
Il mio caro Predecessore Giovanni Paolo II gli ha dedicato nel 1986, cioè nel sedicesimo centenario della sua conversione, un lungo e denso documento, la Lettera apostolica Augustinum Hipponensem.
Il Papa stesso volle definire questo testo “un ringraziamento a Dio per il dono fatto alla Chiesa, e per essa all'umanità intera, con quella mirabile conversione” (AAS, 74, 1982, p. 802).

Sul tema della conversione vorrei tornare in una prossima Udienza. È un tema fondamentale non solo per la sua vita personale, ma anche per la nostra. Nel Vangelo di domenica scorsa il Signore stesso ha riassunto la sua predicazione con la parola: “Convertitevi”. Seguendo il cammino di sant'Agostino, potremmo meditare su che cosa sia questa conversione: è una cosa definitiva, decisiva, ma la decisione fondamentale deve svilupparsi, deve realizzarsi in tutta la nostra vita.

La catechesi oggi è dedicata invece al tema fede e ragione, che è un tema determinante, o meglio, il tema determinante per la biografia di sant'Agostino.

Da bambino aveva imparato da sua madre Monica la fede cattolica. Ma da adolescente aveva abbandonato questa fede perché non poteva più vederne la ragionevolezza e non voleva una religione che non fosse anche per lui espressione della ragione, cioè della verità. La sua sete di verità era radicale e lo ha condotto quindi ad allontanarsi dalla fede cattolica. Ma la sua radicalità era tale che egli non poteva accontentarsi di filosofie che non arrivassero alla verità stessa, che non arrivassero fino a Dio. E a un Dio che non fosse soltanto un'ultima ipotesi cosmologica, ma che fosse il vero Dio, il Dio che dà la vita e che entra nella nostra stessa vita.

Così tutto l'itinerario intellettuale e spirituale di sant'Agostino costituisce un modello valido anche oggi nel rapporto tra fede e ragione, tema non solo per uomini credenti ma per ogni uomo che cerca la verità, tema centrale per l'equilibrio e il destino di ogni essere umano.

Queste due dimensioni, fede e ragione, non sono da separare né da contrapporre, ma piuttosto devono sempre andare insieme. Come ha scritto Agostino stesso dopo la sua conversione, fede e ragione sono “le due forze che ci portano a conoscere” (Contra Academicos, III, 20, 43).

A questo proposito rimangono giustamente celebri le due formule agostiniane (Sermones, 43, 9) che esprimono questa coerente sintesi tra fede e ragione: crede ut intelligas (“credi per comprendere”) — il credere apre la strada per varcare la porta della verità — ma anche, e inseparabilmente, intellige ut credas (“comprendi per credere”), scruta la verità per poter trovare Dio e credere.

Le due affermazioni di Agostino esprimono con efficace immediatezza e con altrettanta profondità la sintesi di questo problema, nella quale la Chiesa cattolica vede espresso il proprio cammino.

Storicamente questa sintesi va formandosi, prima ancora della venuta di Cristo, nell'incontro tra fede ebraica e pensiero greco nel giudaismo ellenistico. Successivamente nella storia questa sintesi è stata ripresa e sviluppata da molti pensatori cristiani. L'armonia tra fede e ragione significa soprattutto che Dio non è lontano: non è lontano dalla nostra ragione e dalla nostra vita; è vicino ad ogni essere umano, vicino al nostro cuore e vicino alla nostra ragione, se realmente ci mettiamo in cammino.

Proprio questa vicinanza di Dio all’uomo fu avvertita con straordinaria intensità da Agostino. La presenza di Dio nell’uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel proprio intimo: non andare fuori – afferma il convertito – ma “torna in te stesso; nell’uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso.

Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che tu trascendi un’anima che ragiona. Tendi dunque là dove si accende la luce della ragione” (De vera religione, 39, 72). Proprio come egli stesso sottolinea, con un’affermazione famosissima, all’inizio delle Confessiones, autobiografia spirituale scritta a lode di Dio: “Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te” (I, 1, 1).

La lontananza di Dio equivale allora alla lontananza da se stessi: “Tu infatti – riconosce Agostino (Confessiones, III, 6, 11) rivolgendosi direttamente a Dio – eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta”, interior intimo meo et superior summo meo; tanto che – aggiunge in un altro passo ricordando il tempo antecedente la conversione – “tu eri davanti a me; e io invece mi ero allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; e ancora meno ritrovavo te” (Confessiones, V, 2, 2). Proprio perché Agostino ha vissuto in prima persona questo itinerario intellettuale e spirituale, ha saputo renderlo nelle sue opere con tanta immediatezza, profondità e sapienza, riconoscendo in due altri celebri passi delle Confessiones (IV, 4, 9 e 14, 22) che l’uomo è “un grande enigma” (magna quaestio) e “un grande abisso” (grande profundum), enigma e abisso che solo Cristo illumina e salva.

Questo è importante: un uomo che è lontano da Dio è anche lontano da sé, alienato da se stesso, e può ritrovare se stesso solo incontrandosi con Dio. Così arriva anche a sé, al suo vero io, alla sua vera identità.

L’essere umano – sottolinea poi Agostino nel De civitate Dei (XII, 27) – è sociale per natura ma antisociale per vizio, ed è salvato da Cristo, unico mediatore tra Dio e l’umanità e “via universale della libertà e della salvezza”, come ha ripetuto il mio predecessore Giovanni Paolo II (Augustinum Hipponensem, 21): al di fuori di questa via, che mai è mancata al genere umano – afferma ancora Agostino nella stessa opera – “nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà liberato” (De civitate Dei, X, 32, 2). In quanto unico mediatore della salvezza, Cristo è capo della Chiesa e a essa è misticamente unito al punto che Agostino può affermare: “Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo, noi le sue membra, l’uomo totale è lui e noi” (In Iohannis evangelium tractatus, 21, 8).

Popolo di Dio e casa di Dio, la Chiesa nella visione agostiniana è dunque legata strettamente al concetto di Corpo di Cristo, fondata sulla rilettura cristologica dell’Antico Testamento e sulla vita sacramentale centrata sull’Eucaristia, nella quale il Signore ci dà il suo Corpo e ci trasforma in suo Corpo.

È allora fondamentale che la Chiesa, popolo di Dio in senso cristologico e non in senso sociologico, sia davvero inserita in Cristo, il quale – afferma Agostino in una bellissima pagina – “prega per noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio: riconosciamo pertanto in lui la nostra voce e in noi la sua” (Enarrationes in Psalmos, 85, 1).

Nella conclusione della lettera apostolica Augustinum Hipponensem Giovanni Paolo II ha voluto chiedere allo stesso santo che cosa abbia da dire agli uomini di oggi e risponde innanzi tutto con le parole che Agostino affidò a una lettera dettata poco dopo la sua conversione: “A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità” (Epistulae, 1, 1); quella verità che è Cristo stesso, Dio vero, al quale è rivolta una delle preghiere più belle e più famose delle Confessiones (X, 27, 38): “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo, e nelle bellezze che hai creato, deforme, mi gettavo. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano quelle cose che, se non fossero in te, non esisterebbero. Hai chiamato e hai gridato e hai rotto la mia sordità, hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato nella tua pace”.

Ecco, Agostino ha incontrato Dio e durante tutta la sua vita ne ha fatto esperienza al punto che questa realtà – che è innanzi tutto incontro con una Persona, Gesù – ha cambiato la sua vita, come cambia quella di quanti, donne e uomini, in ogni tempo hanno la grazia di incontrarlo. Preghiamo che il Signore ci dia questa grazia e ci faccia trovare così la sua pace.

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Sito dedicato a Sant'Agostino

Agostino in "Monastero virtuale"

martedì 29 gennaio 2008

Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2008: "Cristo si è fatto povero per voi"


SANTA PASQUA 2006-2007-2008

CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DEL MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2008 , 29.01.2008

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2008

"Cristo si è fatto povero per voi" (2 Cor 8,9)

Cari fratelli e sorelle!

1. Ogni anno, la Quaresima ci offre una provvidenziale occasione per approfondire il senso e il valore del nostro essere cristiani, e ci stimola a riscoprire la misericordia di Dio perché diventiamo, a nostra volta, più misericordiosi verso i fratelli. Nel tempo quaresimale la Chiesa si preoccupa di proporre alcuni specifici impegni che accompagnino concretamente i fedeli in questo processo di rinnovamento interiore: essi sono la preghiera, il digiuno e l’elemosina.
Quest’anno, nel consueto Messaggio quaresimale, desidero soffermarmi a riflettere sulla pratica dell’elemosina, che rappresenta un modo concreto di venire in aiuto a chi è nel bisogno e, al tempo stesso, un esercizio ascetico per liberarsi dall’attaccamento ai beni terreni. Quanto sia forte la suggestione delle ricchezze materiali, e quanto netta debba essere la nostra decisione di non idolatrarle, lo afferma Gesù in maniera perentoria: “Non potete servire a Dio e al denaro” (Lc 16,13). L’elemosina ci aiuta a vincere questa costante tentazione, educandoci a venire incontro alle necessità del prossimo e a condividere con gli altri quanto per bontà divina possediamo. A questo mirano le collette speciali a favore dei poveri, che in Quaresima vengono promosse in molte parti del mondo. In tal modo, alla purificazione interiore si aggiunge un gesto di comunione ecclesiale, secondo quanto avveniva già nella Chiesa primitiva. San Paolo ne parla nelle sue Lettere a proposito della colletta a favore della comunità di Gerusalemme (cfr 2 Cor 8-9; Rm 15,25-27).

2. Secondo l’insegnamento evangelico, noi non siamo proprietari bensì amministratori dei beni che possediamo: essi quindi non vanno considerati come esclusiva proprietà, ma come mezzi attraverso i quali il Signore chiama ciascuno di noi a farsi tramite della sua provvidenza verso il prossimo.
Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, i beni materiali rivestono una valenza sociale, secondo il principio della loro destinazione universale (cfr n. 2404).

Nel Vangelo è chiaro il monito di Gesù verso chi possiede e utilizza solo per sé le ricchezze terrene. Di fronte alle moltitudini che, carenti di tutto, patiscono la fame, acquistano il tono di un forte rimprovero le parole di san Giovanni: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il proprio fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17). Con maggiore eloquenza risuona il richiamo alla condivisione nei Paesi la cui popolazione è composta in maggioranza da cristiani, essendo ancor più grave la loro responsabilità di fronte alle moltitudini che soffrono nell’indigenza e nell’abbandono. Soccorrerle è un dovere di giustizia prima ancora che un atto di carità.

3. Il Vangelo pone in luce una caratteristica tipica dell’elemosina cristiana: deve essere nascosta. “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”, dice Gesù, “perché la tua elemosina resti segreta” (Mt 6,3-4). E poco prima aveva detto che non ci si deve vantare delle proprie buone azioni, per non rischiare di essere privati della ricompensa celeste (cfr Mt 6,1-2). La preoccupazione del discepolo è che tutto vada a maggior gloria di Dio. Gesù ammonisce: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16). Tutto deve essere dunque compiuto a gloria di Dio e non nostra. Questa consapevolezza accompagni, cari fratelli e sorelle, ogni gesto di aiuto al prossimo evitando che si trasformi in un mezzo per porre in evidenza noi stessi. Se nel compiere una buona azione non abbiamo come fine la gloria di Dio e il vero bene dei fratelli, ma miriamo piuttosto ad un ritorno di interesse personale o semplicemente di plauso, ci poniamo fuori dell’ottica evangelica. Nella moderna società dell’immagine occorre vigilare attentamente, poiché questa tentazione è ricorrente. L’elemosina evangelica non è semplice filantropia: è piuttosto un’espressione concreta della carità, virtù teologale che esige l’interiore conversione all’amore di Dio e dei fratelli, ad imitazione di Gesù Cristo, il quale morendo in croce donò tutto se stesso per noi. Come non ringraziare Dio per le tante persone che nel silenzio, lontano dai riflettori della società mediatica, compiono con questo spirito azioni generose di sostegno al prossimo in difficoltà? A ben poco serve donare i propri beni agli altri, se per questo il cuore si gonfia di vanagloria: ecco perché non cerca un riconoscimento umano per le opere di misericordia che compie chi sa che Dio “vede nel segreto” e nel segreto ricompenserà.

4. Invitandoci a considerare l’elemosina con uno sguardo più profondo, che trascenda la dimensione puramente materiale, la Scrittura ci insegna che c’è più gioia nel dare che nel ricevere (cfr At 20,35). Quando agiamo con amore esprimiamo la verità del nostro essere: siamo stati infatti creati non per noi stessi, ma per Dio e per i fratelli (cfr 2 Cor 5,15). Ogni volta che per amore di Dio condividiamo i nostri beni con il prossimo bisognoso, sperimentiamo che la pienezza di vita viene dall’amore e tutto ci ritorna come benedizione in forma di pace, di interiore soddisfazione e di gioia. Il Padre celeste ricompensa le nostre elemosine con la sua gioia. E c’è di più: san Pietro cita tra i frutti spirituali dell’elemosina il perdono dei peccati. “La carità - egli scrive - copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4,8). Come spesso ripete la liturgia quaresimale, Iddio offre a noi peccatori la possibilità di essere perdonati. Il fatto di condividere con i poveri ciò che possediamo ci dispone a ricevere tale dono. Penso, in questo momento, a quanti avvertono il peso del male compiuto e, proprio per questo, si sentono lontani da Dio, timorosi e quasi incapaci di ricorrere a Lui. L’elemosina, avvicinandoci agli altri, ci avvicina a Dio e può diventare strumento di autentica conversione e riconciliazione con Lui e con i fratelli.

5. L’elemosina educa alla generosità dell’amore. San Giuseppe Benedetto Cottolengo soleva raccomandare: “Non contate mai le monete che date, perché io dico sempre così: se nel fare l’elemosina la mano sinistra non ha da sapere ciò che fa la destra, anche la destra non ha da sapere ciò che fa essa medesima” (Detti e pensieri, Edilibri, n. 201). Al riguardo, è quanto mai significativo l’episodio evangelico della vedova che, nella sua miseria, getta nel tesoro del tempio “tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12,44). La sua piccola e insignificante moneta diviene un simbolo eloquente: questa vedova dona a Dio non del suo superfluo, non tanto ciò che ha, ma quello che è. Tutta se stessa.

Questo episodio commovente si trova inserito nella descrizione dei giorni che precedono immediatamente la passione e morte di Gesù, il quale, come nota san Paolo, si è fatto povero per arricchirci della sua povertà (cfr 2 Cor 8,9); ha dato tutto se stesso per noi. La Quaresima, anche attraverso la pratica dell’elemosina ci spinge a seguire il suo esempio. Alla sua scuola possiamo imparare a fare della nostra vita un dono totale; imitandolo riusciamo a renderci disponibili, non tanto a dare qualcosa di ciò che possediamo, bensì noi stessi. L’intero Vangelo non si riassume forse nell’unico comandamento della carità? La pratica quaresimale dell’elemosina diviene pertanto un mezzo per approfondire la nostra vocazione cristiana. Quando gratuitamente offre se stesso, il cristiano testimonia che non è la ricchezza materiale a dettare le leggi dell’esistenza, ma l’amore. Ciò che dà valore all’elemosina è dunque l’amore, che ispira forme diverse di dono, secondo le possibilità e le condizioni di ciascuno.

6. Cari fratelli e sorelle, la Quaresima ci invita ad “allenarci” spiritualmente, anche mediante la pratica dell’elemosina, per crescere nella carità e riconoscere nei poveri Cristo stesso. Negli Atti degli Apostoli si racconta che l’apostolo Pietro allo storpio che chiedeva l’elemosina alla porta del tempio disse: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina” (At 3,6). Con l’elemosina regaliamo qualcosa di materiale, segno del dono più grande che possiamo offrire agli altri con l’annuncio e la testimonianza di Cristo, nel Cui nome c’è la vita vera. Questo periodo sia pertanto caratterizzato da uno sforzo personale e comunitario di adesione a Cristo per essere testimoni del suo amore. Maria, Madre e Serva fedele del Signore, aiuti i credenti a condurre il “combattimento spirituale” della Quaresima armati della preghiera, del digiuno e della pratica dell’elemosina, per giungere alle celebrazioni delle Feste pasquali rinnovati nello spirito. Con questi voti imparto volentieri a tutti l’Apostolica Benedizione.

Dal Vaticano, 30 ottobre 2007

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana

lunedì 28 gennaio 2008

Benedetto XVI ai partecipanti a un colloquio interaccademico: "La scienza non diventi il criterio del bene"


"Nella nostra epoca nella quale lo sviluppo delle scienze attira e seduce per le possibilità che offre, è importante più che mai educare le coscienze dei nostri contemporanei affinché la scienza non diventi il criterio del bene e l'uomo sia rispettato come centro del creato".
Lo ha ribadito il Papa rivolgendosi ai membri delle Accademie Pontificie delle scienze e delle scienze sociali, delle Accademie delle scienze, delle scienze morali e politiche e dell'istituto cattolico di Parigi in occasione del colloquio sul tema "L'identità mutevole dell'individuo", ricevuti in udienza questa mattina, lunedì 28, nella sala dei Papi.


Pubblichiamo qui di seguito una nostra traduzione del discorso

Signori Cancellieri,
Eccellenze,
Cari Amici Accademici,
Signore e Signori
,

È con piacere che vi accolgo al termine del vostro Convegno che si conclude qui a Roma, dopo essersi svolto nell'Istituto di Francia, a Parigi, e che è stato dedicato al tema "L'Identità mutevole dell'individuo". Ringrazio prima di tutto il Principe Gabriel de Broglie per le parole di omaggio con le quali ha voluto introdurre il nostro incontro. Desidero parimenti salutare i membri di tutte le istituzioni sotto la cui egida è stato organizzato questo Convegno: la Pontificia Accademia delle Scienze, la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, l'Accademia delle Scienze Morali e Politiche, l'Accademia delle Scienze, l'Istituto Cattolico di Parigi. Sono lieto del fatto che, per la prima volta, una collaborazione interaccademica di tale natura si sia potuto instaurare, aprendo la via ad ampie ricerche pluridisciplinari sempre più feconde.
Mentre le scienze esatte, naturali e umane, hanno fatto prodigiosi progressi nella conoscenza dell'uomo e del suo universo, grande è la tentazione di voler circoscrivere completamente l'identità dell'essere umano e di chiuderlo nel sapere che ne può derivare. Per non intraprendere questa via, è importante dare voce alla ricerca antropologica, filosofica e teologica, che permette di far apparire e mantenere nell'uomo il suo mistero, poiché nessuna scienza può dire chi è l'uomo, da dove viene e dove va.
La scienza dell'uomo diviene dunque la più necessaria di tutte le scienze. È il concetto espresso da Giovanni Paolo II nell'Enciclica Fides et ratio: "Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge" (n. 83). L'uomo va sempre al di là di quello che di lui si vede o si percepisce attraverso l'esperienza. Trascurare l'interrogativo sull'essere dell'uomo porta inevitabilmente a rifiutare di ricercare la verità obiettiva sull'essere nella sua integrità e, in tal modo, a non essere più capaci di riconoscere il fondamento sul quale riposa la dignità dell'uomo, di ogni uomo, dalla fase embrionale fino alla sua morte naturale.
Nel corso del vostro convegno, avete sperimentato che le scienze, la filosofia e la teologia possono aiutarsi nel percepire l'identità dell'uomo, che è sempre in divenire. A partire da un interrogativo sul nuovo essere derivato dalla fusione cellulare, che è portatore di un patrimonio genetico nuovo e specifico, avete messo in luce elementi fondamentali del mistero dell'uomo, caratterizzato dalla alterità: essere creato da Dio, essere a immagine di Dio, essere amato fatto per amare. In quanto essere umano, non è mai chiuso in se stesso; è sempre portatore di alterità e si trova fin dalla sua origine ad interagire con altri esseri umani, come ci rivelano sempre più le scienze umane. Come non ricordare qui la meravigliosa meditazione del salmista sull'essere umano, tessuto nel segreto del seno di sua madre e allo stesso tempo conosciuto, nella sua identità e nel suo mistero, da Dio solo, che lo ama e lo protegge (cfr Sal 138, 1-16)!
L'uomo non è il frutto del caso, e neppure di un insieme di convergenze, di determinismi o di interazioni psico-chimiche; è un essere che gode di una libertà che, pur tenendo conto della sua natura, la trascende, e che è il segno del mistero di alterità che lo abita. È in questa prospettiva che il grande pensatore Pascal diceva che "l'uomo supera infinitamente l'uomo". Questa libertà, che è propria dell'essere uomo, fa sì che quest'ultimo possa orientare la sua vita verso un fine, possa, con le azioni che compie, volgersi verso la felicità alla quale è chiamato per l'eternità. Questa libertà dimostra che l'esistenza dell'uomo ha un senso. Nell'esercizio della sua autentica libertà, la persona soddisfa la sua vocazione; si realizza e dà forma alla sua identità profonda. È anche nella messa in atto della sua libertà che esercita la propria responsabilità sulle sue azioni. In tal senso, la dignità particolare dell'essere umano è al contempo un dono di Dio e la promessa di un futuro.
L'uomo ha in sé una capacità specifica: quella di discernere ciò che è buono e bene. Posta in lui dal Creatore come un sigillo, la sinderesi lo spinge a fare il bene. Maturo grazie ad essa, l'uomo è chiamato a sviluppare la propria coscienza attraverso la formazione e l'esercizio, per procedere liberamente nell'esistenza, fondandosi sulle leggi fondamentali che sono la legge naturale e quella morale.

Nella nostra epoca, in cui lo sviluppo delle scienze attira e seduce mediante le possibilità offerte, è più importante che mai educare le coscienze dei nostri contemporanei, affinché la scienza non divenga il criterio del bene e l'uomo sia rispettato come il centro del creato e non sia oggetto di manipolazioni ideologiche, né di decisioni arbitrarie o abusi dei più forti sui più deboli. Pericoli di cui abbiamo conosciuto le manifestazioni nel corso della storia umana, e in particolare nel corso del ventesimo secolo.

Qualsiasi pratica scientifica deve essere anche una pratica di amore, chiamata a mettersi al servizio dell'uomo e dell'umanità, e ad apportare il suo contribuito all'edificazione dell'identità delle persone. In effetti, come ho sottolineato nell'Enciclica Deus caritas est, "L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo... Amore è "estasi"... ma estasi come cammino, come esodo permanente dell'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, proprio così verso il ritrovamento di sé" (n. 6). L'amore fa uscire da se stessi per scoprire e riconoscere l'altro; aprendo all'alterità, afferma anche l'identità del soggetto, poiché l'altro mi rivela me stesso. In tutta la Bibbia è questa l'esperienza fatta, a partire da Abramo, da numerosi credenti. Il modello per eccellenza dell'amore è Cristo. È nell'atto di dare la propria vita per i fratelli, di donarsi completamente che si manifesta la sua identità profonda e che troviamo la chiave di lettura del mistero insondabile del suo essere e della sua missione.
Affidando le vostre ricerche all'intercessione di San Tommaso d'Aquino, che la Chiesa onora in questo giorno e che resta un "un autentico modello per quanti ricercano la verità" (Fides et ratio, n. 78), vi assicuro della mia preghiera per voi, per le vostre famiglie e per i vostri collaboratori, e imparto a tutti con affetto la Benedizione Apostolica.

(©L'Osservatore Romano - 28-29 gennaio 2008)

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domenica 27 gennaio 2008

Il regno di Dio è la vita che si afferma sulla morte, la luce della verità che disperde le tenebre dell’ignoranza e della menzogna


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Per la prima volta nella storia una donna si affaccia dalla finestra del Papa!

Il Papa e i bambini dell’Azione Cattolica lanciano in cielo due colombe simbolo di pace (Radio Vaticana)

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS , 27.01.2008

PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Nella liturgia odierna l’evangelista Matteo, che ci accompagnerà lungo tutto questo anno liturgico, presenta l’inizio della missione pubblica di Cristo.
Essa consiste essenzialmente nella predicazione del Regno di Dio e nella guarigione dei malati, a dimostrare che questo Regno si è fatto vicino, anzi, è ormai venuto in mezzo a noi. Gesù comincia a predicare in Galilea, la regione in cui è cresciuto, territorio di "periferia" rispetto al centro della nazione ebraica, che è la Giudea, e in essa Gerusalemme. Ma il profeta Isaia aveva preannunciato che quella terra, assegnata alle tribù di Zabulon e di Neftali, avrebbe conosciuto un futuro glorioso: il popolo immerso nelle tenebre avrebbe visto una grande luce (cfr Is 8,23-9,1), la luce di Cristo e del suo Vangelo (cfr Mt 4,12-16). Il termine "vangelo", ai tempi di Gesù, era usato dagli imperatori romani per i loro proclami. Indipendentemente dal contenuto, essi erano definiti "buone novelle", cioè annunci di salvezza, perché l’imperatore era considerato come il signore del mondo ed ogni suo editto come foriero di bene. Applicare questa parola alla predicazione di Gesù ebbe dunque un senso fortemente critico, come dire: Dio, non l’imperatore, è il Signore del mondo, e il vero Vangelo è quello di Gesù Cristo.

La "buona notizia" che Gesù proclama si riassume in queste parole: "Il regno di Dio – o regno dei cieli – è vicino" (Mt 4,17; Mc 1,15). Che significa questa espressione?

Non indica certo un regno terreno delimitato nello spazio e nel tempo, ma annuncia che è Dio a regnare, che è Dio il Signore e la sua signoria è presente, attuale, si sta realizzando. La novità del messaggio di Cristo è dunque che Dio in Lui si è fatto vicino, regna ormai in mezzo a noi, come dimostrano i miracoli e le guarigioni che compie. Dio regna nel mondo mediante il suo Figlio fatto uomo e con la forza dello Spirito Santo, che viene chiamato "dito di Dio" (cfr Lc 11,20). Dove arriva Gesù, lo Spirito creatore reca vita e gli uomini sono sanati dalle malattie del corpo e dello spirito. La signoria di Dio si manifesta allora nella guarigione integrale dell’uomo. Con ciò Gesù vuole rivelare il volto del vero Dio, il Dio vicino, pieno di misericordia per ogni essere umano; il Dio che ci fa dono della vita in abbondanza, della sua stessa vita. Il regno di Dio è pertanto la vita che si afferma sulla morte, la luce della verità che disperde le tenebre dell’ignoranza e della menzogna.

Preghiamo Maria Santissima, affinché ottenga sempre alla Chiesa la stessa passione per il Regno di Dio che animò la missione di Gesù Cristo: passione per Dio, per la sua signoria d’amore e di vita; passione per l’uomo, incontrato in verità col desiderio di donargli il tesoro più prezioso: l’amore di Dio, suo Creatore e Padre.

DOPO L’ANGELUS

Saluto con grande affetto i bambini e i ragazzi dell’Azione Cattolica di Roma, che sono venuti come ogni anno a conclusione del "Mese della Pace", accompagnati dal Cardinale Vicario, dai genitori e dagli educatori.
Due di loro sono qui vicino a me, mi hanno presentato un messaggio e tra poco mi aiuteranno a lanciare in volo due colombe, simbolo di pace. Cari piccoli amici, so che vi impegnate in favore dei vostri coetanei che soffrono per la guerra e la povertà. Continuate sulla strada che Gesù ci ha indicato per costruire la vera pace!

Oggi si celebra la Giornata mondiale dei malati di lebbra, iniziata 55 anni fa da Raoul Follereau. A tutte le persone che soffrono per questa malattia rivolgo il mio affettuoso saluto assicurando una speciale preghiera, che estendo a quanti, in vari modi, si impegnano al loro fianco, in particolare ai volontari dell’Associazione Amici di Raoul Follereau.

Lunedì scorso, 21 gennaio, ho indirizzato alla Diocesi e alla città di Roma una Lettera sul compito urgente dell’educazione. Ho voluto così offrire un mio particolare contributo alla formazione delle nuove generazioni, impegno difficile e cruciale per il futuro della nostra città. Sabato 23 febbraio incontrerò in una speciale Udienza in Vaticano tutti coloro che, come educatori o come fanciulli, adolescenti e giovani in formazione, sono più direttamente partecipi della grande sfida educativa, e consegnerò loro simbolicamente questa mia Lettera.

Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli provenienti da San Prospero, diocesi di Pisa, e i ragazzi dell’Azione Cattolica di Ragusa. A tutti auguro una buona domenica. Ed ora liberiamo le colombe della pace portate dai ragazzi di Roma.

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sabato 26 gennaio 2008

Il Papa alla Sacra Rota: "Evitare le interpretazioni arbitrarie nelle cause di nullità matrimoniale"

UDIENZA AL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA IN OCCASIONE DELL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO , 26.01.2008

Alle 12.15 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i Prelati Uditori, gli Officiali e gli Avvocati del Tribunale della Rota Romana in occasione della solenne inaugurazione dell’Anno giudiziario.

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Carissimi Prelati Uditori, Officiali e Collaboratori

del Tribunale della Rota Romana!

La ricorrenza del primo centenario del ristabilimento del Tribunale Apostolico della Rota Romana, sancito da San Pio X nel 1908 con la Costituzione apostolica Sapienti consilio, è stata appena ricordata dalle cordiali parole del vostro Decano, Mons. Antoni Stankiewicz. Questa circostanza rende ancor più vivi i sensi di apprezzamento e di gratitudine con cui vi incontro già per la terza volta. A tutti ed a ciascuno di voi va il mio saluto cordiale. In voi, cari Prelati Uditori, e anche in tutti coloro che in diversi modi partecipano all’attività di questo Tribunale, vedo impersonata un’istituzione della Sede Apostolica il cui radicamento nella tradizione canonica si rivela fonte di costante vitalità. Spetta a voi il compito di mantenere viva quella tradizione, nella convinzione di rendere così un servizio sempre attuale all’amministrazione della giustizia nella Chiesa.

Questo centenario è occasione propizia per riflettere su un aspetto fondamentale dell’attività della Rota, cioè sul valore della giurisprudenza rotale nel complesso dell’amministrazione della giustizia nella Chiesa. È un profilo messo in risalto nella stessa descrizione che della Rota fa la Costituzione apostolica Pastor bonus: «Questo Tribunale funge ordinariamente da istanza superiore nel grado di appello presso la Sede Apostolica per tutelare i diritti nella Chiesa, provvede all’unità della giurisprudenza e, attraverso le proprie sentenze, è di aiuto ai Tribunali di grado inferiore» (art. 126). I miei amati Predecessori nei loro annuali discorsi parlarono spesso con apprezzamento e fiducia della giurisprudenza della Rota Romana sia in generale sia con riferimento ad argomenti concreti, specialmente matrimoniali.

Se è giusto e doveroso ricordare il ministero di giustizia svolto dalla Rota durante la sua plurisecolare esistenza, e particolarmente negli ultimi cento anni, risulta anche opportuno, nella presente ricorrenza, cercare di approfondire il senso di tale servizio, di cui i volumi annuali delle decisioni sono una manifestazione e nel contempo uno strumento operativo. In particolare, ci possiamo chiedere perché le sentenze rotali possiedono una rilevanza giuridica che oltrepassa l’ambito immediato delle cause in cui vengono emesse. A prescindere dal valore formale che ogni ordinamento giuridico possa attribuire ai precedenti giudiziari, è indubbio che le singole decisioni interessano in qualche modo l’intera società. Infatti, esse vanno determinando ciò che tutti possono attendersi dai tribunali, il che certamente influisce sull’andamento della vita sociale. Qualsiasi sistema giudiziario deve cercare di offrire soluzioni nelle quali, insieme alla valutazione prudenziale dei casi nella loro irripetibile concretezza, siano applicati i medesimi principi e norme generali di giustizia. Solo in questo modo si crea un clima di fiducia nell’operato dei tribunali, e si evita l’arbitrarietà dei criteri soggettivi. Inoltre, all’interno di ogni organizzazione giudiziaria vi è una gerarchia tra i vari tribunali, di modo che la possibilità stessa di ricorrere ai tribunali superiori costituisce di per sé uno strumento di unificazione della giurisprudenza.

Le anzidette considerazioni sono perfettamente applicabili anche ai tribunali ecclesiastici. Anzi, siccome i processi canonici riguardano gli aspetti giuridici dei beni salvifici o di altri beni temporali che servono alla missione della Chiesa, l’esigenza di unità nei criteri essenziali di giustizia e la necessità di poter prevedere ragionevolmente il senso delle decisioni giudiziarie, diventa un bene ecclesiale pubblico di particolare rilievo per la vita interna del Popolo di Dio e per la sua testimonianza istituzionale nel mondo. Oltre alla valenza intrinseca di ragionevolezza insita nell’operato di un Tribunale che decide le cause ordinariamente in ultima istanza, è chiaro che il valore della giurisprudenza della Rota Romana dipende dalla sua natura di istanza superiore nel grado di appello presso la Sede Apostolica. Le disposizioni legali che riconoscono tale valore (cfr can. 19 CIC; Cost. ap. Pastor bonus, art. 126) non creano, ma dichiarano quel valore. Esso proviene in definitiva dalla necessità di amministrare la giustizia secondo parametri uguali in tutto ciò che, per l’appunto, è in sé essenzialmente uguale.

Di conseguenza, il valore della giurisprudenza rotale non è una questione fattuale d’ordine sociologico, ma è d’indole propriamente giuridica, in quanto si pone al servizio della giustizia sostanziale. Pertanto, sarebbe improprio ravvisare una contrapposizione fra la giurisprudenza rotale e le decisioni dei tribunali locali, i quali sono chiamati a compiere una funzione indispensabile, nel rendere immediatamente accessibile l’amministrazione della giustizia, e nel poter indagare e risolvere i casi nella loro concretezza talvolta legata alla cultura e alla mentalità dei popoli. In ogni caso, tutte le sentenze devono essere sempre fondate sui principi e sulle norme comuni di giustizia. Tale bisogno, comune ad ogni ordinamento giuridico, riveste nella Chiesa una specifica pregnanza, nella misura in cui sono in gioco le esigenze della comunione, che implica la tutela di ciò che è comune alla Chiesa universale, affidata in modo peculiare all’Autorità Suprema e agli organi che ad normam iuris partecipano alla sua sacra potestà.

Nell’ambito matrimoniale la giurisprudenza rotale ha svolto un lavoro molto cospicuo in questi cento anni. In particolare, ha offerto contributi assai significativi che sono sfociati nella codificazione vigente. Dopodiché non si può pensare che sia diminuita l’importanza dell’interpretazione giurisprudenziale del diritto da parte della Rota. In effetti, proprio l’applicazione dell’attuale legge canonica esige che se ne colga il vero senso di giustizia, legato anzitutto all’essenza stessa del matrimonio. La Rota Romana è costantemente chiamata a un compito arduo, che influisce molto sul lavoro di tutti i tribunali: quello di cogliere l’esistenza o meno della realtà matrimoniale, che è intrinsecamente antropologica, teologica e giuridica. Per meglio comprendere il ruolo della giurisprudenza, vorrei insistere su ciò che vi ho detto l’anno scorso circa la dimensione intrinsecamente giuridica del matrimonio (cfr discorso del 27 gennaio 2007, in AAS 99 [2007], pp. 86-91). Il diritto non può essere ridotto ad un mero insieme di regole positive che i tribunali sono chiamati ad applicare. L’unico modo per fondare solidamente l’opera giurisprudenziale consiste nel concepirla quale vero esercizio della prudentia iuris, di una prudenza che è tutt’altro che arbitrarietà o relativismo, poiché consente di leggere negli eventi la presenza o l’assenza dello specifico rapporto di giustizia che è il matrimonio, con il suo reale spessore umano e salvifico. Soltanto in questo modo le massime giurisprudenziali acquistano il loro vero valore, e non diventano una compilazione di regole astratte e ripetitive, esposte al rischio di interpretazioni soggettive e arbitrarie.

Perciò, la valutazione oggettiva dei fatti, alla luce del Magistero e del diritto della Chiesa, costituisce un aspetto molto importante dell’attività della Rota Romana, ed influisce molto sull’operato dei ministri di giustizia dei tribunali delle Chiese locali. La giurisprudenza rotale va vista come esemplare opera di saggezza giuridica, compiuta con l’autorità del Tribunale stabilmente costituito dal Successore di Pietro per il bene di tutta la Chiesa. Grazie a tale opera, nelle cause di nullità matrimoniale la realtà concreta viene oggettivamente giudicata alla luce dei criteri che riaffermano costantemente la realtà del matrimonio indissolubile, aperta ad ogni uomo e ad ogni donna secondo il disegno di Dio Creatore e Salvatore. Ciò richiede uno sforzo costante per raggiungere quell’unità di criteri di giustizia che caratterizza in modo essenziale la nozione stessa di giurisprudenza e ne è presupposto fondamentale di operatività. Nella Chiesa, proprio per la sua universalità e per la diversità delle culture giuridiche in cui è chiamata ad operare, c’è sempre il rischio che si formino, sensim sine sensu, ‘giurisprudenze locali’ sempre più distanti dall’interpretazione comune delle leggi positive e persino dalla dottrina della Chiesa sul matrimonio. Auspico che si studino i mezzi opportuni per rendere la giurisprudenza rotale sempre più manifestamente unitaria, nonché effettivamente accessibile a tutti gli operatori della giustizia, in modo da trovare uniforme applicazione in tutti i tribunali della Chiesa.

In quest’ottica realistica va inteso pure il valore degli interventi del Magistero ecclesiastico sulle questioni giuridiche matrimoniali, compresi i discorsi del Romano Pontefice alla Rota Romana. Essi sono una guida immediata per l’operato di tutti i tribunali della Chiesa in quanto insegnano con autorità ciò che è essenziale circa la realtà del matrimonio. Il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, nel suo ultimo discorso alla Rota, mise in guardia contro la mentalità positivistica nella comprensione del diritto, che tende a separare le leggi e gli indirizzi giurisprudenziali dalla dottrina della Chiesa. Egli affermò: "In realtà, l’interpretazione autentica della parola di Dio, operata dal magistero della Chiesa, ha valore giuridico nella misura in cui riguarda l’ambito del diritto, senza aver bisogno di nessun ulteriore passaggio formale per diventare giuridicamente e moralmente vincolante. Per una sana ermeneutica giuridica è poi indispensabile cogliere l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, collocando organicamente ogni affermazione nell’alveo della tradizione. In questo modo si potrà rifuggire sia da interpretazioni selettive e distorte, sia da critiche sterili a singoli passi" (AAS 97 [2005], p. 166, n. 6).

Il presente centenario è destinato ad andare oltre la commemorazione formale. Esso diviene occasione di una riflessione che deve ritemprare il vostro impegno vivificandolo con un sempre più profondo senso ecclesiale della giustizia, che è vero servizio alla comunione salvifica. Vi incoraggio a pregare quotidianamente per la Rota Romana e per tutti coloro che operano nel settore dell’amministrazione della giustizia nella Chiesa, ricorrendo all’intercessione materna di Maria Santissima, Speculum iustitiae. Questo invito potrebbe sembrare meramente devozionale e piuttosto estrinseco rispetto al vostro ministero: invece, non dobbiamo dimenticare che nella Chiesa tutto si realizza mediante la forza dell’orazione, che trasforma tutta la nostra esistenza e ci riempie della speranza che Gesù ci porta. Questa preghiera, inseparabile dall’impegno quotidiano, serio e competente, apporterà luce e forza, fedeltà e autentico rinnovamento nella vita di questa venerabile Istituzione, mediante la quale, ad normam iuris, il Vescovo di Roma esercita la sua sollecitudine primaziale per l’amministrazione della giustizia nell’intero Popolo di Dio. La mia benedizione odierna, piena di affetto e di gratitudine, vuol abbracciare perciò sia voi qui presenti sia quanti servono la Chiesa e i fedeli in questo campo in tutto il mondo.

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INDIRIZZO DI OMAGGIO DEL DECANO S.E. MONS. ANTONI STANKIEWICZ

Beatissimo Padre,

L’Udienza benignamente accordata dalla Santità Vostra alla Rota Romana per la solenne inaugurazione del nuovo Anno Giudiziario, ci permette, sotto il Vostro paterno auspicio e la Vostra illuminata guida, di varcare con filiale fiducia la soglia del centesimo anniversario della ricostituzione di quest’Organo giudiziario di appello della Sede Apostolica (can. 1443 CIC). è un Tribunale di ampie competenze perché agisce sia come foro concorrenziale con gli altri tribunali di seconda istanza (can. 1444, § 1, n. 1 CIC; Cost. ap. Pastor bonus, art. 128, n. 1; Instr. Dignitas connubii, art. 27, § 1), sia come l’unico foro in terza o ulteriore istanza, salve le leggi particolari o le facoltà speciali concesse dalla Santa Sede (cf. can. 1444, § 1, n. 2 CIC; Cost. ap. Pastor bonus, art. 128, n. 2; can. 1065 CCEO; Istr. Dignitas connubii, art. 27, § 2).
La ricostituzione del Tribunale della Rota Romana avvenne per volontà di San Pio X. Egli con la Costituzione apostolica Sapienti consilio del 29 giugno 1908 (AAS 1 [1909], pp. 7-19) richiamò in vita «sacrae Romanae Rotae tribunal, anteactis temporibus omni laude cumulatum», e, con la Lex propria Sacrae Romanae Rotae et Signaturae Apostolicae, annessa alla medesima Costituzione e pubblicata in pari data, determinò la struttura interna del Tribunale, l’ambito giurisdizionale e l’ordinamento giudiziale proprio (AAS 1 [1909], pp. 20-35).
È noto che la Rota Romana affonda le sue radici nel lontano medioevo. Gli antecedenti storici risalgono almeno all’attività giudiziaria degli Auditores causarum Curiae domini Papae, o degli Auditores causarum Sacri Palatii Apostolici. A questi Uditori Giovanni XXII con la Cost. ap. Ratio iuris del 16 novembre 1331 diede il primo stabile ordinamento giudiziario e una vasta competenza giudiziale in materia canonica e civile, e Benedetto XII con la Cost. ap. Ad regimen del 10 gennaio 1335 attribuì a loro la configurazione di funzionari pontifici («nostri ac Sedis Apostolicae speciales ac veri officiarii»), assegnando anche loro nel palazzo pontificio di Avignone una propria sede, dotata di uno speciale mobile o pluteo (pluteum ligneum) girevole per sorreggere i testi di diritto e i fascicoli delle cause, registrato in qualche elenco delle spese con il nome di «rota Auditorum».
Dopo secoli di storia rotale, segnata da periodi di grande prestigio, in seguito alle modifiche giurisdizionali apportate da Gregorio XVI con il Regolamento legislativo e giudiziario per gli affari civili, del 10 novembre 1834, la Sacra Rota diventò tribunale ordinario di appello per tutte le cause civili (§§ 321-325) e le più gravi cause contenziose ecclesiastiche (§§ 377-380) dello Stato pontificio. Ma con la dissoluzione dello Stato pontificio nel settembre dell’anno 1870, anche la Rota cessò la sua attività giudiziaria.
Ciò premesso, in conformità con l’espressione della Cost. Sapienti consilio, che la Rota «hoc aevo variis de causis iudicare ferme destiterit», con ragione si ritiene che il suddetto atto pontificio abbia segnato «l’inizio della storia di un organismo assolutamente nuovo, anche se dall’antico aveva riassunto tutto il carattere esteriore» (N. Del Re, La Curia Romana, Roma 1970, p. 252).
Invero, San Pio X nel suo progetto della riforma della Curia Romana si propose «di richiamare in vita il Tribunale della S. Rota Romana, e a questo rimettere per commissione tutte le cause», cioè «sia criminali sia disciplinari (o civili)», e di provvedere «ad amministrare la giustizia in modo più spedito e consentaneo ai tempi, dovendo un Tribunale di dignità inferiore emettere le sentenze motivate a differenza delle Sacre Congregazioni, che giudicano more principis» (G. Ferretto, La riforma del B. Pio X, in AA.VV., Romana Curia a Beato Pio X «Sapienti consilio» reformata, Romae 1951, pp. 41 s).
L’intento del Sommo Pontefice di «dare vita alla S. Rota riformandone il vecchio sistema di procedura» (ibid., p. 52), ha portato, quindi, alla rifondazione di essa, configurandola, però, come Corte di appello per tutta la Chiesa Cattolica (cf. Lex propria, can. 14). Questo atto costitutivo della nuova Rota Romana ha contribuito ad innestare nel procedimento rotale la conformità semantica fra le «sententiae» e le «decisiones», sebbene quest’ultime presso la Rota antica fossero soltanto le motivate osservazioni extragiudiziali dei Ponenti, destinate alle parti litiganti ante sententiam.
Attenendosi già al significato sinonimico delle decisiones-sententiae, nel periodo centennale della Rota restituta sono stati pubblicati finora 92 volumi (1909-2000) delle «Decisiones seu sententiae», e dopo la promulgazione del nuovo Codice anche 12 volumi dei «Decreta» (1983-1994). Ovviamente, per motivi tecnici e di concisione giurisprudenziale, ambedue le serie contengono soltanto una selezione delle sentenze e dei decreti (decisiones seu sententiae selectae, decreta selecta).
La ricorrenza centenaria della ricostituzione della Rota offre l’occasione di proporre un breve cenno statistico circa il numero globale delle sentenze, quale frutto dello studio e della collaborazione a livello istruttorio e dibattimentale fra i Giudici e gli altri Collaboratori giudiziali. Ora, nel periodo considerato (1908-2007) sono state emesse 12872 sentenze definitive e interlocutorie, che rendono solo un’idea molto parziale dell’attività della Rota.
Beatissimo Padre! Le decisioni rotali tendono sempre ad attenersi ai principi di ermeneutica canonico-forense nell’applicare alle fattispecie concrete le norme ecclesiali, ossia i «sacri Ecclesiae canones», i quali, secondo l’espressione di Benedetto XIV, che per un settennio ebbe ad onorare il nostro antico Tribunale come Secretus Rotae, «nil aliud quam aequitatem animarumque salutem [respiciunt]» (ep. Urbem Antibarum, 19 marzo 1752, in Codicis Iuris Canonici Fontes, cura P. Gasparri, vol. II, Romae 1924, n. 419, p. 357).
La salus animarum (cf. can. 1752 CIC), secondo l’insegnamento di Pio XII, è «la regola dell’esercizio del potere giudiziario nella Chiesa» (Pio XII, Allocuzione alla S. Romana Rota, 3 ottobre 1941, AAS 33 [1941], p. 425), e «possiede come guida una norma suprema assolutamente sicura: la legge e la volontà di Dio». Essa comunica «la fermezza per procedere nel sicuro cammino della verità e del diritto, e la preserva […] da una debole condiscendenza verso le disordinate brame delle passioni» e «da una dura e ingiustificata inflessibilità» (Pio XII, Allocuzione alla S. Romana Rota, 2 ottobre 1944, AAS 36 [1944], p. 290).
La Santità Vostra nell’Enciclica Spe salvi del 30 novembre 2007 ha posto in luce che la salus animarum è «una realtà comunitaria» (n. 14), ed ha messo in guardia dall’«interpretare la "salvezza dell’anima" come fuga davanti alla responsabilità per l’insieme», e «come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri» (n. 16).
Proprio questa verità ci preserva dal pericolo reale che la carità pastorale nel campo giudiziale venga contaminata «da atteggiamenti compiacenti verso le persone» che «in realtà non rispondono al bene delle persone e della stessa comunità ecclesiale; evitando il confronto con la verità che salva», e possono essere «controproducenti rispetto all’incontro salvifico di ognuno con Cristo» (Benedetto XVI, Allocuzione alla Rota Romana, 28 gennaio 2006, AAS 98 [2006], pp. 137 s).
Beatissimo Padre! Con cuore pieno di gratitudine verso la Santità Vostra per questa Udienza inaugurale nella ricorrenza centenaria della ricostituzione della Rota Romana, ispirati dal Vostro magistero ad una «grande speranza» che «è solo Dio» e «che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere», affidandoci a «Maria, stella della speranza» (Lett. enc. Spe salvi, nn. 31, 49), chiediamo di illuminarci con la Vostra augusta parola e di impartirci la Vostra Benedizione Apostolica per il nostro impegno nel servizio alla giustizia ecclesiale.

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venerdì 25 gennaio 2008

La barca dell’ecumenismo non sarebbe mai uscita dal porto se non fosse stata mossa dall’ampia corrente di preghiera e spinta dal soffio dello Spirito


(Caravaggio, "Conversione di san Paolo")

Vedi anche:

IL RIAVVICINAMENTO FRA CATTOLICI E ORTODOSSI

San Paolo nella catechesi di Papa Benedetto

Joseph Ratzinger: "Paolo riteneva che un un apostolo non dovesse preoccuparsi di avere l’opinione pubblica dalla sua parte. No, egli voleva scuotere le coscienze!"

CELEBRAZIONE DEI VESPRI NELLA FESTA DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO A CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA PER L'UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica di San Paolo fuori le Mura
Giovedì, 25 gennaio 2008


Cari fratelli e sorelle,

la festa della Conversione di San Paolo ci pone nuovamente alla presenza di questo grande Apostolo, scelto da Dio per essere il suo "testimone davanti a tutti gli uomini" (At 22,15).

Per Saulo di Tarso, il momento dell’incontro con Cristo risorto sulla via di Damasco segnò la svolta decisiva della vita. Si attuò allora la sua completa trasformazione, una vera e propria conversione spirituale. In un istante, per intervento divino, l’accanito persecutore della Chiesa di Dio si ritrovò cieco brancolante nel buio, ma con nel cuore ormai una grande luce che lo avrebbe portato, di lì a poco, ad essere un ardente apostolo del Vangelo. La consapevolezza che solo la grazia divina aveva potuto realizzare una simile conversione non abbandonò mai Paolo.

Quando egli aveva già dato il meglio di sé, consacrandosi instancabilmente alla predicazione del Vangelo, scrisse con rinnovato fervore: "Ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me" (1 Cor 15,10). Infaticabile come se l’opera della missione dipendesse interamente dai suoi sforzi, San Paolo fu tuttavia animato sempre dalla profonda persuasione che tutta la sua forza proveniva dalla grazia di Dio operante in lui.

Questa sera, le parole dell’Apostolo sul rapporto tra sforzo umano e grazia divina risuonano colme di un significato del tutto particolare. A conclusione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, siamo ancor più coscienti di quanto l’opera della ricomposizione dell’unità, che richiede ogni nostra energia e sforzo, sia comunque infinitamente superiore alle nostre possibilità.

L’unità con Dio e con i nostri fratelli e sorelle è un dono che viene dall’Alto, che scaturisce dalla comunione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo e che in essa si accresce e si perfeziona. Non è in nostro potere decidere quando o come questa unità si realizzerà pienamente. Solo Dio potrà farlo!

Come San Paolo, anche noi riponiamo la nostra speranza e fiducia "nella grazia di Dio che è con noi". Cari fratelli e sorelle, questo vuole implorare la preghiera che insieme eleviamo al Signore, affinché sia Lui a illuminarci e sostenerci nella costante nostra ricerca di unità.

Ed ecco allora assumere il suo valore più pieno l’esortazione di Paolo ai cristiani di Tessalonica: "Pregate continuamente" (1 Ts 5,17), che è stata scelta come tema della Settimana di preghiera di quest’anno.

L’Apostolo conosce bene quella comunità nata dalla sua attività missionaria, e nutre per essa grandi speranze. Ne conosce sia i meriti che le debolezze. Tra i suoi membri, infatti, non mancano comportamenti, atteggiamenti e dibattiti suscettibili di creare tensioni e conflitti, e Paolo interviene per aiutare la comunità a camminare nell’unità e nella pace.

Alla conclusione dell’epistola, con una bontà quasi paterna, egli aggiunge una serie di esortazioni molto concrete, invitando i cristiani a favorire la partecipazione di tutti, a sostenere i deboli, ad essere pazienti, a non rendere male per male ad alcuno, a cercare sempre il bene, ad essere sempre lieti e a rendere grazie in ogni circostanza (cfr 1 Ts 5,12-22). Al centro di queste esortazioni, pone l’imperativo "pregate continuamente". Gli altri ammonimenti perderebbero infatti forza e coerenza, se non fossero sostenuti dalla preghiera. L’unità con Dio e con gli altri si costruisce innanzitutto mediante una vita di preghiera, nella costante ricerca della "volontà di Dio in Cristo Gesù verso di noi" (cfr 1 Ts 5,18).

L’invito rivolto da San Paolo ai Tessalonicesi è sempre attuale. Davanti alle debolezze ed ai peccati che impediscono ancora la piena comunione dei cristiani, ognuna di queste esortazioni ha mantenuto la sua pertinenza, ma ciò è particolarmente vero per l’imperativo "pregate continuamente". Che cosa diventerebbe il movimento ecumenico senza la preghiera personale o comune, affinché "tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me ed io in te" (Gv 17,21)? Dove trovare lo "slancio supplementare" di fede, di carità e di speranza di cui ha oggi un particolare bisogno la nostra ricerca dell’unità? Il nostro desiderio di unità non dovrebbe limitarsi ad occasioni sporadiche, ma divenire parte integrante di tutta la nostra vita di preghiera. Sono stati uomini e donne formati nella Parola di Dio e nella preghiera gli artigiani della riconciliazione e dell’unità in ogni fase della storia. È il cammino della preghiera che ha aperto la strada al movimento ecumenico, così come lo conosciamo oggi. A partire dalla metà del XVIII secolo, sono emersi difatti vari movimenti di rinnovamento spirituale, desiderosi di contribuire per mezzo della preghiera alla promozione dell’unità dei cristiani.
Fin dall’inizio, gruppi di cattolici, animati da personalità religiose di spicco, hanno partecipato attivamente a simili iniziative. La preghiera per l’unità è stata sostenuta anche da miei venerati Predecessori, come Papa Leone XIII, il quale, già nel 1895, raccomandava l’introduzione di una novena di preghiera per l’unità dei cristiani. Questi sforzi, compiuti secondo le possibilità della Chiesa del tempo, intendevano attuare la preghiera pronunciata da Gesù stesso nel Cenacolo "perché tutti siano una cosa sola" (Gv 17,21). Non esiste pertanto un ecumenismo genuino che non affondi le sue radici nella preghiera.

Quest’anno celebriamo il centesimo anniversario dell’"Ottavario per l’unità della Chiesa", divenuto in seguito "Settimana di Preghiera per l’unità dei Cristiani". Cento anni fa, Padre Paul Wattson, all’epoca ancora ministro episcopaliano, ideò un ottavario di preghiera per l’unità, che fu celebrato per la prima volta a Graymoor (New York) dal 18 al 25 gennaio 1908. Questa sera, è con grande gioia che rivolgo il mio saluto al Ministro Generale e alla delegazione internazionale dei Fratelli e delle Sorelle francescani dell’Atonement, Congregazione fondata da Padre Paul Wattson e promotrice della sua eredità spirituale. Negli anni trenta del secolo scorso, l’ottavario di preghiera conobbe importanti adattamenti dietro impulso soprattutto dell’Abbé Paul Couturier di Lione, anch’egli grande promotore dell’ecumenismo spirituale. Il suo invito a "pregare per l’unità della Chiesa così come Cristo la vuole e secondo i mezzi che Lui vuole", permise a cristiani di tutte le tradizioni di unirsi in una sola preghiera per l’unità.

Rendiamo grazie a Dio per il grande movimento di preghiera che, da cento anni, accompagna e sostiene i credenti in Cristo nella loro ricerca di unità. La barca dell’ecumenismo non sarebbe mai uscita dal porto se non fosse stata mossa da quest’ampia corrente di preghiera e spinta dal soffio dello Spirito Santo.

Congiuntamente alla Settimana di preghiera, molte comunità religiose e monastiche hanno invitato ed aiutato i loro membri a "pregare continuamente" per l’unità dei cristiani. In questa occasione che ci vede riuniti, ricordiamo in particolare la vita e la testimonianza di Suor Maria Gabriella dell’Unità (1914-1936), suora trappista del monastero di Grottaferrata (attualmente a Vitorchiano). Quando la sua superiora, incoraggiata dall’Abbé Paul Couturier, invitò le sorelle a pregare e a fare dono di sé per l’unità dei cristiani, Suor Maria Gabriella si sentì immediatamente coinvolta e non esitò a dedicare la sua giovane esistenza a questa grande causa. Oggi stesso ricorre il venticinquesimo anniversario della sua beatificazione da parte del mio predecessore, Papa Giovanni Paolo II. Quell’evento ebbe luogo in questa Basilica precisamente il 25 gennaio 1983, durante la celebrazione di chiusura della Settimana di Preghiera per l’Unità. Nella sua omelia, il Servo di Dio ebbe a sottolineare i tre elementi su cui si costruisce la ricerca dell’unità: la conversione, la croce e la preghiera. Su questi tre elementi si fondarono anche la vita e la testimonianza di Suor Maria Gabriella.

L’ecumenismo ha un forte bisogno, oggi come ieri, del grande "monastero invisibile" di cui parlava l’Abbé Paul Couturier, di quella vasta comunità di cristiani di tutte le tradizioni che, senza clamore, pregano ed offrono la loro vita affinché si realizzi l’unità.

Inoltre, da quarant’anni esatti, le comunità cristiane di tutto il mondo ricevono per la Settimana meditazioni e preghiere preparate congiuntamente dalla Commissione "Fede e Costituzione" del Consiglio Ecumenico delle Chiese e dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Questa felice collaborazione ha permesso di ampliare il vasto circolo di preghiera e preparare i suoi contenuti in maniera più adeguata. Questa sera, saluto cordialmente il Rev. Dott. Samuel Kobia, Segretario Generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, che è venuto a Roma per unirsi a noi nel centenario della Settimana di preghiera. Sono lieto per la presenza dei membri del "Gruppo Misto di Lavoro", che saluto con affetto. Il Gruppo Misto è lo strumento di cooperazione tra la Chiesa cattolica ed il Consiglio Ecumenico delle Chiese nella nostra ricerca comune di unità. E, come ogni anno, rivolgo il mio saluto fraterno anche ai vescovi, ai sacerdoti, ai pastori delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali che hanno qui a Roma i loro rappresentanti. La vostra partecipazione a questa preghiera è espressione tangibile dei legami che ci uniscono in Cristo Gesù: "Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20).

In questa storica Basilica, il 28 giugno prossimo, si aprirà l’anno consacrato alla testimonianza e all’insegnamento dell’apostolo Paolo. Che il suo instancabile fervore nel costruire il Corpo di Cristo nell’unità ci aiuti a pregare incessantemente per la piena unità di tutti i cristiani! Amen!

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Il Codice di diritto canonico contiene le norme prodotte per il bene della persona e delle comunità nell’intero Corpo Mistico che è la santa Chiesa


UDIENZA AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO DI STUDIO PROMOSSO DAL PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI , 25.01.2008

Alle 12.20 di questa mattina, nell’Aula delle Benedizioni del Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti al Convegno di Studio promosso dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi sul tema "La legge canonica nella vita della Chiesa. Indagine e prospettive, nel segno del recente Magistero pontificio", in occasione del XXV anniversario della Promulgazione del Codice di Diritto Canonico.
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa rivolge ai presenti
:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri Professori, Operatori e Cultori del Diritto Canonico
!

Con vivo piacere prendo parte a questi ultimi momenti del Convegno di Studio organizzato dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi in occasione del XXV° anniversario della promulgazione del Codice di Diritto Canonico. Vi siete soffermati a riflettere su: "La legge canonica nella vita della Chiesa. Indagine e prospettive, nel segno del recente Magistero pontificio".

Saluto cordialmente ciascuno di voi, in modo particolare il Presidente del Pontificio Consiglio, l'Arcivescovo Francesco Coccopalmerio, che ringrazio per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti voi e per le riflessioni sul Codice e sul diritto nella Chiesa. Il mio ringraziamento si estende altresì all’intero Pontificio Consiglio, con i suoi Membri e Consultori, per la preziosa collaborazione offerta al Papa in campo giuridico-canonico: il Dicastero veglia, infatti, sulla completezza e sull’aggiornamento della legislazione della Chiesa e ne assicura la coerenza.

Mi è caro ricordare, con vivo piacere e gratitudine al Signore, di aver contribuito anch’io alla redazione del Codice, essendo stato nominato dal Servo di Dio Giovanni Paolo II, quando ero Arcivescovo Metropolita di Monaco-Frisinga, membro della Commissione per la Revisione del Codice di Diritto Canonico, alla cui promulgazione, il 26 gennaio 1983, fui poi anche presente.

Il Convegno che si è celebrato in questo significativo anniversario affronta un tema di grande interesse, perché mette in rilievo lo stretto legame che c'è tra la legge canonica e la vita della Chiesa secondo il volere di Gesù Cristo. Mi preme, perciò, in questa occasione ribadire un concetto fondamentale che informa il diritto canonico.

Lo ius ecclesiae non è solo un insieme di norme prodotte dal Legislatore ecclesiale per questo speciale popolo che è la Chiesa di Cristo. Esso è, in primo luogo, la dichiarazione autorevole, da parte del Legislatore ecclesiale, dei doveri e dei diritti, che si fondano nei sacramenti e che sono quindi nati dall’istituzione di Cristo stesso.

Questo insieme di realtà giuridiche, indicato dal Codice, compone un mirabile mosaico nel quale sono raffigurati i volti di tutti i fedeli, laici e Pastori, e di tutte le comunità, dalla Chiesa universale alle Chiese particolari. Mi piace qui ricordare l’espressione davvero incisiva del beato Antonio Rosmini: "La persona umana è l’essenza del diritto" (Rosmini A., Filosofia del diritto, Parte I, lib. I, cap. 3). Quello che, con profonda intuizione, il grande filosofo affermava del diritto umano dobbiamo a maggior ragione ribadire per il diritto canonico: l’essenza del diritto canonico è la persona del cristiano nella Chiesa.

Il Codice di diritto canonico contiene poi le norme prodotte dal Legislatore ecclesiale per il bene della persona e delle comunità nell’intero Corpo Mistico che è la santa Chiesa.

Come ebbe a dire il mio amato Predecessore Giovanni Paolo II nel promulgare il Codice di Diritto Canonico il 25 gennaio 1983, la Chiesa è costituita come una compagine sociale e visibile; come tale "essa ha bisogno di norme: sia perché la sua struttura gerarchica e organica sia visibile; sia perché l'esercizio delle funzioni a lei divinamente affidate, specialmente quella della sacra potestà e dell'amministrazione dei Sacramenti, possa essere adeguatamente organizzato; sia perché le scambievoli relazioni dei fedeli possano essere regolate secondo giustizia, basata sulla carità, garantiti e ben definiti i diritti dei singoli; sia, finalmente, perché le iniziative comuni, intraprese per una vita cristiana sempre più perfetta, attraverso le leggi canoniche vengano sostenute, rafforzate e promosse" (Cost. ap. Sacrae disciplinae leges, in Communicationes, XV [1983], 8-9). In tal modo, la Chiesa riconosce alle sue leggi la natura e la funzione strumentale e pastorale per perseguire il suo fine proprio, che è – com’è noto – il raggiungimento della "salus animarum". "Il Diritto Canonico si rivela così connesso con l'essenza stessa della Chiesa; fa corpo con essa per il retto esercizio del munus pastorale" (Giovanni Paolo II, Ai partecipanti al Congresso Internazionale per il X anniversario della promulgazione del Codice di Diritto Canonico [23 aprile 1993], in Communicationes, XXV [1993], 15).

Perché la legge canonica possa rendere questo prezioso servizio deve, anzitutto, essere una legge ben strutturata. Essa cioè deve essere legata, da un lato, a quel fondamento teologico che le fornisce ragionevolezza ed è essenziale titolo di legittimità ecclesiale; dall’altro lato, essa deve essere aderente alle mutabili circostanze della realtà storica del Popolo di Dio. Inoltre, deve essere formulata in modo chiaro, senza ambiguità, e sempre in armonia con le restanti leggi della Chiesa.

È pertanto necessario abrogare le norme che risultano sorpassate; modificare quelle che necessitano di essere corrette; interpretare - alla luce del vivente Magistero della Chiesa - quelle che sono dubbie e, infine, colmare le eventuali lacunae legis. "Vanno - come disse il Papa Giovanni Paolo II alla Rota Romana - tenute presenti ed applicate le tante manifestazioni di quella flessibilità che, proprio per ragioni pastorali, ha sempre contraddistinto il diritto canonico" (Communicationes XXII, [1990], 5). Tocca a voi, nel Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, vegliare perché l’attività delle varie istanze chiamate nella Chiesa a dettare norme per i fedeli possano sempre rispecchiare nel loro insieme l'unità e la comunione che sono proprie della Chiesa.

Poiché il Diritto canonico traccia la regola necessaria affinché il Popolo di Dio possa efficacemente indirizzarsi verso il proprio fine, si capisce l'importanza che tale diritto debba essere amatoe osservato da tutti i fedeli. La legge della Chiesa è, anzitutto, lex libertatis: legge che ci rende liberi per aderire a Gesù.

Perciò, occorre saper presentare al Popolo di Dio, alle nuove generazioni, e a quanti sono chiamati a far rispettare la legge canonica, il concreto legame che essa ha con la vita della Chiesa, a tutela dei delicati interessi delle cose di Dio, e a protezione dei diritti dei più deboli, di coloro che non hanno altre forze per farsi valere, ma anche a difesa di quei delicati "beni" che ogni fedele ha gratuitamente ricevuto - il dono della fede, della grazia di Dio, anzitutto - che nella Chiesa non possono rimanere senza adeguata protezione da parte del Diritto.

Nel complesso quadro sopra delineato, il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi è chiamato ad essere di aiuto al Romano Pontefice, supremo Legislatore, nel suo compito di principale promotore, garante e interprete del diritto nella Chiesa. Nell’adempimento di questa vostra rilevante mansione potete contare, oltre che sulla fiducia, anche sulla preghiera del Papa, il Quale accompagna il vostro lavoro con la sua affettuosa Benedizione.

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giovedì 24 gennaio 2008

Il Papa ai vescovi sloveni: "L'Europa non può rinnegare l'umanesimo cristiano"


DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AI VESCOVI DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DELLA SLOVENIA IN VISITA "AD LIMINA APOSTOLORUM"

Giovedì, 24 gennaio 2008

Venerati Fratelli nell’Episcopato!

Mentre volge al termine la vostra visita ad Limina Apostolorum, è per me una grande gioia accogliervi, cari Pastori della Chiesa che è in Slovenia. Vi saluto con affetto e sono grato a Mons. Alojzij Uran, Arcivescovo Metropolita di Ljubljana e Presidente della vostra Conferenza Episcopale, per le cortesi parole che mi ha poc’anzi rivolto.

Dalla precedente visita ad Limina, che ebbe luogo nell’aprile del 2001, il vostro Paese ha conosciuto mutamenti di notevole rilievo sul piano delle istituzioni civili. Anzitutto il 1° maggio 2004 la Slovenia è entrata a far parte dell’Unione Europea, e in quella circostanza fu indirizzata da parte dei Vescovi una Lettera pastorale a tutti i fedeli. Il 1° gennaio 2007, poi, il Paese ha adottato la moneta unica europea. Infine, al termine dell’anno scorso, esso è stato inserito nell’ambito del Trattato di Schengen per la libera circolazione. Quasi a coronare tale evoluzione, nel semestre corrente è affidata alla Slovenia la presidenza di turno dell’Unione Europea.

Questi importanti avvenimenti che ho voluto ricordare non hanno carattere ecclesiastico, ma non di meno interessano la Chiesa perché riguardano la vita della gente, in particolare l’orizzonte dei valori in Europa, come giustamente sottolinea la citata Lettera pastorale del 23 aprile 2004. Questa Lettera può apparire oggi un po’ troppo ottimistica. Evidentemente essa si proponeva di valorizzare gli aspetti positivi, senza tuttavia ignorare problemi e pericoli. A distanza di quasi quattro anni dall’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea, mi pare conservi tutto il suo valore quanto da voi affermato: se l’Europa vuole rimanere e diventare sempre più una terra di pace, conservando come uno dei valori fondamentali il rispetto della dignità della persona umana, non può rinnegare la componente principale – sul piano spirituale ed etico – di tale fondamento, cioè quella cristiana. Gli umanesimi non sono tutti uguali, né sono equivalenti sotto il profilo morale. Non mi riferisco qui agli aspetti religiosi, mi limito a quelli etico-sociali. A seconda della visione di uomo che si adotta, infatti, si hanno conseguenze diverse per la convivenza civile. Se, per esempio, si concepisce l’uomo, secondo una tendenza oggi diffusa, in modo individualistico, come giustificare lo sforzo per la costruzione di una comunità giusta e solidale? A questo proposito vorrei riprendere un’espressione della vostra già citata Lettera: “Il cristianesimo è la religione della speranza: speranza nella vita, nella felicità senza fine, nel compimento della fraternità tra tutti gli uomini”.
Questo è vero in ogni continente, e lo è anche in un’Europa dove molti intellettuali stentano ancora ad accettare il fatto che “ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione” (Enc. Spe salvi, 23).

Riconosciamo qui la principale sfida con cui deve misurarsi oggi la Chiesa in Slovenia. Il secolarismo di impronta occidentale, diverso e forse più subdolo di quello marxista, presenta segni che non possono non preoccuparci. Si pensi, ad esempio, alla ricerca sfrenata dei beni materiali, alla riduzione della natalità, e ancora al calo della pratica religiosa con una sensibile diminuzione delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. La Comunità ecclesiale slovena è impegnata già da tempo a rispondere alla sfida del secolarismo a diversi livelli e in varie direzioni. Mi piace anzitutto ricordare il Concilio Plenario nazionale da voi tenuto tra il 1999 e il 2000, il cui tema riecheggiava le parole rivolte da Mosè al popolo d’Israele in procinto di entrare nella terra promessa: “Scegli la vita” (Dt 30,19). Ogni generazione è chiamata a rinnovare questa scelta, tra “la vita e il bene, la morte e il male” (cfr Dt 30,15). E noi Pastori abbiamo il dovere di indicare ai cristiani la via della vita, perché essi siano a loro volta sale e luce nella società. Incoraggio pertanto la Chiesa che è il Slovenia a rispondere alla cultura materialistica ed egoistica con una coerente azione evangelizzatrice, che parta dalle parrocchie: è infatti dalle comunità parrocchiali più che da altre strutture che possono e devono venire iniziative ed atti concreti di testimonianza cristiana. Facilita questo necessario impegno pastorale anche la ristrutturazione delle circoscrizioni ecclesiastiche da me disposta nel 2006, con la creazione di tre nuove Diocesi e l’elevazione di Maribor a sede metropolitana, per far sì che i Vescovi siano più vicini ai loro sacerdoti e fedeli e li accompagnino più efficacemente nel cammino della fede e nell’impegno apostolico.

Cari e venerati Fratelli, per la primavera del 2009 avete indetto il Congresso Eucaristico Nazionale, invitandomi anche a visitare il Paese in quella circostanza. Mentre vi ringrazio per questo cortese gesto e affido al Signore tale progetto, debbo fin d’ora lodarvi per l’iniziativa di convocare tutta la Comunità intorno al Mistero eucaristico, “fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa” (Cost. dogm. Lumen gentium, 11). Il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II ha concluso il suo lungo pontificato stimolandoci a volgere il cuore verso l’Eucaristia. Io ho raccolto questo suo invito e, dopo l’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia dell’ottobre 2005, ho scritto l’Esortazione apostolica Sacramentum caritatis. Avete dunque una grande ricchezza di insegnamenti a cui attingere per la preparazione del vostro Congresso, evento ecclesiale che – sono certo – costituirà per le vostre comunità un’occasione propizia in cui riprendere le conclusioni del recente Concilio Plenario sloveno e portarne avanti l’attuazione.

L’Eucaristia e la Parola di Dio – a quest’ultima sarà dedicata la prossima Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi – costituiscono il vero tesoro della Chiesa. Fedele all’insegnamento di Gesù, ogni comunità deve utilizzare i beni terreni semplicemente come servizio al Vangelo e coerentemente con i dettami del Vangelo. Il Nuovo Testamento è al riguardo assai ricco di insegnamenti e di esempi normativi perché in ogni tempo i Pastori possano impostare correttamente il delicato problema dei beni temporali e del loro uso appropriato. In ogni epoca della Chiesa, la testimonianza di povertà evangelica è stato un elemento essenziale dell’evangelizzazione, come lo è stato nella vita di Cristo. Occorre pertanto impegnarsi tutti, pastori e fedeli, in una conversione personale e comunitaria, affinché una sempre maggiore fedeltà al Vangelo nell’amministrazione dei beni della Chiesa offra a tutti la testimonianza di un popolo cristiano impegnato a sintonizzarsi con gli insegnamenti di Cristo.

Venerati e cari Fratelli, rendo grazie al Signore che in questi giorni ci ha concesso di ravvivare i vincoli di comunione vostri e delle vostre Chiese con la Sede di Pietro. Vi proteggano e vi sostengano il beato Anton Martin Slomšek e gli altri Santi particolarmente venerati nelle vostre Comunità. Vegli sempre sul vostro ministero Maria Santissima, Madre della Chiesa, e vi ottenga abbondanti grazie celesti. Da parte mia, vi assicuro il ricordo nella preghiera e di cuore vi imparto la Benedizione Apostolica, estendendola a tutti i fedeli affidati alle vostre cure pastorali.

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Il Papa: "Su talune vicende i media non sono utilizzati per un corretto ruolo di informazione, ma per "creare" gli eventi stessi"


CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DEL MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER LA 42a GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI , 24.01.2008

Vedi anche:

STEFANO MARIA PACI PER SKYTG24 (1)

STEFANO MARIA PACI PER SKYTG24 (2)

I media al bivio tra protagonismo e servizio: presentato il Messaggio del Papa per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (Radio Vaticana)

In Sala Stampa, mons. Celli presenta il Messaggio del Papa e risponde a tutto campo sui media cattolici e l'etica dell'informazione

Il Papa inaugura l'info-etica (Gazzetta del sud)

Il Papa invoca una info-etica internazionale (Elisa Pinna per "La Gazzetta del sud")

Messaggio del Papa sui media: il commento di Rodolfo Lorenzoni per "Il Tempo"

«I mass-media spesso impongono distorti modelli di vita» ("Eco di Bergamo" e "Il Giornale")

Il Papa inaugura l'info-etica (Gazzetta del sud)

Il Papa contro la tv spazzatura: «I media non impongano la violenza e modelli distorti» (Giansoldati per "Il Messaggero")

Botturi: «Un codice info-etico contro le derive della surrealtà»

Il massmediologo Casetti: «Il Papa ci invita a servire l’uomo favorendo la libertà di pensiero»

La voce della fede e la tv amorale (Stefano Mannucci per "Il Tempo")

L'allarme del Papa nella giornata mondiale delle comunicazioni sociali (Tosatti per "La Stampa")

“Protagonismo” e “manipolazione”, i rischi della Tv italiana. Il commento al messaggio del Papa (Zenit)

Messaggio del Papa ai media: i commenti di "Repubblica" e "Corriere"

Messaggio del Papa sui mass media: il commento di Mons. Celli e di Gianni Riotta (Radio Vaticana)

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PER LA 42a GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI , 24.01.2008

"I mezzi di comunicazione sociale: al bivio tra protagonismo e servizio. Cercare la Verità per condividerla". Questo il tema scelto dal Santo Padre Benedetto XVI per la 42a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2008. Pubblichiamo di seguito il Messaggio del Santo Padre:

TESTO ORIGINALE IN LINGUA ITALIANA

Cari fratelli e sorelle!

1. Il tema della prossima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali - "I mezzi di comunicazione sociale: al bivio tra protagonismo e servizio. Cercare la verità per condividerla" – pone in luce quanto importante sia il ruolo di questi strumenti nella vita delle persone e della società.

Non c’è infatti ambito dell’esperienza umana, specialmente se consideriamo il vasto fenomeno della globalizzazione, in cui i media non siano diventati parte costitutiva delle relazioni interpersonali e dei processi sociali, economici, politici e religiosi.

In proposito, scrivevo nel Messaggio per la Giornata della Pace dello scorso 1° gennaio: "I mezzi della comunicazione sociale, per le potenzialità educative di cui dispongono, hanno una speciale responsabilità nel promuovere il rispetto per la famiglia, nell’illustrarne le attese e i diritti, nel metterne in evidenza la bellezza" (n. 5).

2. Grazie ad una vorticosa evoluzione tecnologica, questi mezzi hanno acquisito potenzialità straordinarie, ponendo nello stesso tempo nuovi ed inediti interrogativi e problemi.

È innegabile l’apporto che essi possono dare alla circolazione delle notizie, alla conoscenza dei fatti e alla diffusione del sapere: hanno contribuito, ad esempio, in maniera decisiva all’alfabetizzazione e alla socializzazione, come pure allo sviluppo della democrazia e del dialogo tra i popoli.

Senza il loro apporto sarebbe veramente difficile favorire e migliorare la comprensione tra le nazioni, dare respiro universale ai dialoghi di pace, garantire all’uomo il bene primario dell’informazione, assicurando, nel contempo, la libera circolazione del pensiero in ordine soprattutto agli ideali di solidarietà e di giustizia sociale. Sì! I media, nel loro insieme, non sono soltanto mezzi per la diffusione delle idee, ma possono e devono essere anche strumenti al servizio di un mondo più giusto e solidale.

Non manca, purtroppo, il rischio che essi si trasformino invece in sistemi volti a sottomettere l’uomo a logiche dettate dagli interessi dominanti del momento. E’ il caso di una comunicazione usata per fini ideologici o per la collocazione di prodotti di consumo mediante una pubblicità ossessiva.

Con il pretesto di rappresentare la realtà, di fatto si tende a legittimare e ad imporre modelli distorti di vita personale, familiare o sociale. Inoltre, per favorire gli ascolti, la cosiddetta audience, a volte non si esita a ricorrere alla trasgressione, alla volgarità e alla violenza. Vi è infine la possibilità che, attraverso i media, vengano proposti e sostenuti modelli di sviluppo che aumentano anziché ridurre il divario tecnologico tra i paesi ricchi e quelli poveri.

3. L’umanità si trova oggi di fronte a un bivio. Anche per i media vale quanto ho scritto nell’Enciclica Spe salvi circa l’ambiguità del progresso, che offre inedite possibilità per il bene, ma apre al tempo stesso possibilità abissali di male che prima non esistevano (cfr n. 22). Occorre pertanto chiedersi se sia saggio lasciare che gli strumenti della comunicazione sociale siano asserviti a un protagonismo indiscriminato o finiscano in balia di chi se ne avvale per manipolare le coscienze. Non sarebbe piuttosto doveroso far sì che restino al servizio della persona e del bene comune e favoriscano "la formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore" (ibid.)? La loro straordinaria incidenza nella vita delle persone e della società è un dato largamente riconosciuto, ma va posta oggi in evidenza la svolta, direi anzi la vera e propria mutazione di ruolo, che essi si trovano ad affrontare.

Oggi, in modo sempre più marcato, la comunicazione sembra avere talora la pretesa non solo di rappresentare la realtà, ma di determinarla grazie al potere e alla forza di suggestione che possiede.

Si costata, ad esempio, che su talune vicende i media non sono utilizzati per un corretto ruolo di informazione, ma per "creare" gli eventi stessi. Questo pericoloso mutamento della loro funzione è avvertito con preoccupazione da molti Pastori.

Proprio perché si tratta di realtà che incidono profondamente su tutte le dimensioni della vita umana (morale, intellettuale, religiosa, relazionale, affettiva, culturale), ponendo in gioco il bene della persona, occorre ribadire che non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente praticabile. L’impatto degli strumenti della comunicazione sulla vita dell’uomo contemporaneo pone pertanto questioni non eludibili, che attendono scelte e risposte non più rinviabili.

4. Il ruolo che gli strumenti della comunicazione sociale hanno assunto nella società va ormai considerato parte integrante della questione antropologica, che emerge come sfida cruciale del terzo millennio. In maniera non dissimile da quanto accade sul fronte della vita umana, del matrimonio e della famiglia, e nell’ambito delle grandi questioni contemporanee concernenti la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato, anche nel settore delle comunicazioni sociali sono in gioco dimensioni costitutive dell’uomo e della sua verità.

Quando la comunicazione perde gli ancoraggi etici e sfugge al controllo sociale, finisce per non tenere più in conto la centralità e la dignità inviolabile dell’uomo, rischiando di incidere negativamente sulla sua coscienza, sulle sue scelte, e di condizionare in definitiva la libertà e la vita stessa delle persone. Ecco perché è indispensabile che le comunicazioni sociali difendano gelosamente la persona e ne rispettino appieno la dignità.

Più di qualcuno pensa che sia oggi necessaria, in questo ambito, un’"info-etica" così come esiste la bio-etica nel campo della medicina e della ricerca scientifica legata alla vita.

5. Occorre evitare che i media diventino il megafono del materialismo economico e del relativismo etico, vere piaghe del nostro tempo. Essi possono e devono invece contribuire a far conoscere la verità sull’uomo, difendendola davanti a coloro che tendono a negarla o a distruggerla. Si può anzi dire che la ricerca e la presentazione della verità sull’uomo costituiscono la vocazione più alta della comunicazione sociale. Utilizzare a questo fine tutti i linguaggi, sempre più belli e raffinati di cui i media dispongono, è un compito esaltante affidato in primo luogo ai responsabili ed agli operatori del settore. E’ un compito che tuttavia, in qualche modo, ci riguarda tutti, perché tutti, nell’epoca della globalizzazione, siamo fruitori e operatori di comunicazioni sociali. I nuovi media, telefonia e internet in particolare, stanno modificando il volto stesso della comunicazione e, forse, è questa un’occasione preziosa per ridisegnarlo, per rendere meglio visibili, come ebbe a dire il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, i lineamenti essenziali e irrinunciabili della verità sulla persona umana (cfr Lett. ap. Il rapido sviluppo, 10).

6. L’uomo ha sete di verità, è alla ricerca della verità; lo dimostrano anche l’attenzione e il successo registrati da tanti prodotti editoriali, programmi o fiction di qualità, in cui la verità, la bellezza e la grandezza della persona, inclusa la sua dimensione religiosa, sono riconosciute e ben rappresentate. Gesù ha detto: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv 8, 32). La verità che ci rende liberi è Cristo, perché solo Lui può rispondere pienamente alla sete di vita e di amore che è nel cuore dell’uomo. Chi lo ha incontrato e si appassiona al suo messaggio sperimenta il desiderio incontenibile di condividere e comunicare questa verità: "Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi – scrive san Giovanni -, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita […], noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta" (1Gv 1, 1-3).

Invochiamo lo Spirito Santo, perché non manchino comunicatori coraggiosi e autentici testimoni della verità che, fedeli alla consegna di Cristo e appassionati del messaggio della fede, "sappiano farsi interpreti delle odierne istanze culturali, impegnandosi a vivere questa epoca della comunicazione non come tempo di alienazione e di smarrimento, ma come tempo prezioso per la ricerca della verità e per lo sviluppo della comunione tra le persone e i popoli" (Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno Parabole mediatiche, 9 novembre 2002).

Con questo auspicio a tutti imparto con affetto la mia Benedizione.

Dal Vaticano, 24 gennaio 2008, Festa di San Francesco di Sales.

BENEDICTUS PP. XVI

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