8 mesi fa
domenica 30 settembre 2007
E' durante la vita che bisogna ravvedersi, farlo dopo non serve a nulla
VIDEO DI SKYTG24
LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS , 30.09.2007
Alle ore 12 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia al balcone del Cortile interno del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo e recita l’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini presenti.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:
PRIMA DELL’ANGELUS
Cari fratelli e sorelle!
Oggi il Vangelo di Luca presenta la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31). Il ricco impersona l’uso iniquo delle ricchezze da parte di chi le adopera per un lusso sfrenato ed egoistico, pensando solamente a soddisfare se stesso, senza curarsi affatto del mendicante che sta alla sua porta. Il povero, al contrario, rappresenta la persona di cui soltanto Dio si prende cura: a differenza del ricco, egli ha un nome, Lazzaro, abbreviazione di Eleazaro, che significa appunto "Dio lo aiuta". Chi è dimenticato da tutti, Dio non lo dimentica; chi non vale nulla agli occhi degli uomini, è prezioso a quelli del Signore. Il racconto mostra come l’iniquità terrena venga ribaltata dalla giustizia divina: dopo la morte, Lazzaro è accolto "nel seno di Abramo", cioè nella beatitudine eterna; mentre il ricco finisce "all’inferno tra i tormenti". Si tratta di un nuovo stato di cose inappellabile e definitivo, per cui è durante la vita che bisogna ravvedersi, farlo dopo non serve a nulla.
Questa parabola si presta anche ad una lettura in chiave sociale. Rimane memorabile quella fornita proprio quarant’anni fa dal Papa Paolo VI nell’Enciclica Popolorum progressio. Parlando della lotta contro la fame, egli scrisse: "Si tratta di costruire un mondo in cui ogni uomo … possa vivere una vita pienamente umana … dove il povero Lazzaro possa assidersi alla stessa mensa del ricco" (n. 47). A causare le numerose situazioni di miseria sono – ricorda l’Enciclica – da una parte "le servitù che vengono dagli uomini" e dall’altra "una natura non sufficientemente padroneggiata" (ibid.). Purtroppo certe popolazioni soffrono di entrambi questi fattori sommati. Come non pensare, in questo momento, specialmente ai Paesi dell’Africa subsahariana, colpiti nei giorni scorsi da gravi inondazioni? Ma non possiamo dimenticare tante altre situazioni di emergenza umanitaria in diverse regioni del pianeta, nelle quali i conflitti per il potere politico ed economico vengono ad aggravare realtà di disagio ambientale già pesanti. L’appello cui allora diede voce Paolo VI: "I popoli della fame interpellano in maniera drammatica i popoli dell’opulenza" (Populorum progressio, 3), conserva oggi tutta la sua urgenza. Non possiamo dire di non conoscere la via da percorrere: abbiamo la Legge e i Profeti, ci dice Gesù nel Vangelo. Chi non vuole ascoltarli, non cambierebbe nemmeno se qualcuno dai morti tornasse ad ammonirlo.
La Vergine Maria ci aiuti ad approfittare del tempo presente per ascoltare e mettere in pratica questa parola di Dio. Ci ottenga di diventare più attenti ai fratelli in necessità, per condividere con loro il tanto o il poco che abbiamo, e contribuire, incominciando da noi stessi, a diffondere la logica e lo stile dell’autentica solidarietà.
DOPO L’ANGELUS
Seguo con grande trepidazione i gravissimi eventi di questi giorni in Myanmar e desidero esprimere la mia spirituale vicinanza a quella cara popolazione nel momento della dolorosa prova che sta attraversando. Mentre assicuro la mia solidale ed intensa preghiera e invito la Chiesa intera a fare altrettanto, auspico vivamente che venga trovata una soluzione pacifica, per il bene del Paese.
Raccomando alla vostra preghiera anche la situazione della Penisola coreana, dove alcuni importanti sviluppi nel dialogo fra le due Coree fanno sperare che gli sforzi di riconciliazione in atto possano consolidarsi a favore del popolo coreano e a beneficio della stabilità e della pace dell’intera regione.
sabato 29 settembre 2007
I Vescovi sono "angeli" della loro Chiesa, perchè essi sono uomini di Dio e devono vivere orientati verso Dio
CAPPELLA PAPALE PER L’ORDINAZIONE EPISCOPALE DI SEI ECC.MI PRESULI , 29.09.2007
Alle ore 10 di oggi, festa dei Santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Benedetto XVI presiede la Santa Messa nel corso della quale conferisce l’Ordinazione episcopale a 6 Presuli.
Concelebrano con il Santo Padre i due Vescovi conconsacranti: l’Em.mo Card. Tarcisio Bertone, S.D.B., Segretario di Stato, e l’Em.mo Card. Marian Jaworski, Arcivescovo di Lviv dei Latini; e i sei Vescovi eletti.
Nel corso della Liturgia dell’Ordinazione, il Papa pronuncia la seguente omelia:
OMELIA DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle,
siamo raccolti intorno all’altare del Signore per una circostanza solenne e lieta ad un tempo: l’Ordinazione episcopale di sei nuovi Vescovi, chiamati a svolgere mansioni diverse a servizio dell’unica Chiesa di Cristo. Essi sono Mons. Mieczysław Mokrzycki, Mons. Francesco Brugnaro, Mons. Gianfranco Ravasi, Mons. Tommaso Caputo, Mons. Sergio Pagano, Mons. Vincenzo Di Mauro. A tutti rivolgo il mio saluto cordiale con un fraterno abbraccio. Un saluto particolare va a Mons. Mokrzycki che, insieme a all’attuale Cardinale Stanisław Dziwisz, per molti anni ha servito come segretario il Santo Padre Giovanni Paolo II e poi, dopo la mia elezione a Successore di Pietro, ha fatto anche a me da segretario con grande umiltà, competenza e dedizione. Con lui saluto l’amico di Papa Giovanni Paolo II, il Cardinale Marian Jaworski, a cui Mons. Mokrzycki recherà il proprio aiuto come Coadiutore. Saluto inoltre i Vescovi latini dell’Ucraina, che sono qui a Roma per la loro visita "ad limina Apostolorum". Il mio pensiero va anche ai Vescovi greco-cattolici, alcuni dei quali ho incontrato lunedì scorso, e la Chiesa ortodossa dell’Ucraina. A tutti auguro le benedizioni del Cielo per le loro fatiche miranti a mantenere operante nella loro Terra e a trasmettere alle future generazioni la forza risanatrice e corroborante del Vangelo di Cristo.
Celebriamo questa Ordinazione episcopale nella festa dei tre Arcangeli che nella Scrittura sono menzionati per nome: Michele, Gabriele e Raffaele. Questo ci richiama alla mente che nell’antica Chiesa – già nell’Apocalisse – i Vescovi venivano qualificati "angeli" della loro Chiesa, esprimendo in questo modo un’intima corrispondenza tra il ministero del Vescovo e la missione dell’Angelo.
A partire dal compito dell’Angelo si può comprendere il servizio del Vescovo. Ma che cosa è un Angelo? La Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa ci lasciano scorgere due aspetti. Da una parte, l’Angelo è una creatura che sta davanti a Dio, orientata con l’intero suo essere verso Dio. Tutti e tre i nomi degli Arcangeli finiscono con la parola "El", che significa "Dio". Dio è iscritto nei loro nomi, nella loro natura. La loro vera natura è l’esistenza in vista di Lui e per Lui. Proprio così si spiega anche il secondo aspetto che caratterizza gli Angeli: essi sono messaggeri di Dio. Portano Dio agli uomini, aprono il cielo e così aprono la terra. Proprio perché sono presso Dio, possono essere anche molto vicini all’uomo. Dio, infatti, è più intimo a ciascuno di noi di quanto non lo siamo noi stessi. Gli Angeli parlano all’uomo di ciò che costituisce il suo vero essere, di ciò che nella sua vita tanto spesso è coperto e sepolto. Essi lo chiamano a rientrare in se stesso, toccandolo da parte di Dio. In questo senso anche noi esseri umani dovremmo sempre di nuovo diventare angeli gli uni per gli altri – angeli che ci distolgono da vie sbagliate e ci orientano sempre di nuovo verso Dio. Se la Chiesa antica chiama i Vescovi "angeli" della loro Chiesa, intende dire proprio questo: i Vescovi stessi devono essere uomini di Dio, devono vivere orientati verso Dio. "Multum orat pro populo" – "Prega molto per il popolo", dice il Breviario della Chiesa a proposito dei santi Vescovi. Il Vescovo deve essere un orante, uno che intercede per gli uomini presso Dio. Più lo fa, più comprende anche le persone che gli sono affidate e può diventare per loro un angelo – un messaggero di Dio, che le aiuta a trovare la loro vera natura, se stesse, e a vivere l’idea che Dio ha di loro.
Tutto ciò diventa ancora più chiaro se ora guardiamo le figure dei tre Arcangeli la cui festa la Chiesa celebra oggi. C’è innanzitutto Michele. Lo incontriamo nella Sacra Scrittura soprattutto nel Libro di Daniele, nella Lettera dell’Apostolo san Giuda Taddeo e nell’Apocalisse. Di questo Arcangelo si rendono evidenti in questi testi due funzioni. Egli difende la causa dell’unicità di Dio contro la presunzione del drago, del "serpente antico", come dice Giovanni. È il continuo tentativo del serpente di far credere agli uomini che Dio deve scomparire, affinché essi possano diventare grandi; che Dio ci ostacola nella nostra libertà e che perciò noi dobbiamo sbarazzarci di Lui. Ma il drago non accusa solo Dio. L’Apocalisse lo chiama anche "l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa davanti a Dio giorno e notte" (12, 10). Chi accantona Dio, non rende grande l’uomo, ma gli toglie la sua dignità. Allora l’uomo diventa un prodotto mal riuscito dell’evoluzione. Chi accusa Dio, accusa anche l’uomo. La fede in Dio difende l’uomo in tutte le sue debolezze ed insufficienze: il fulgore di Dio risplende su ogni singolo. È compito del Vescovo, in quanto uomo di Dio, di far spazio a Dio nel mondo contro le negazioni e di difendere così la grandezza dell’uomo. E che cosa si potrebbe dire e pensare di più grande sull’uomo del fatto che Dio stesso si è fatto uomo? L’altra funzione di Michele, secondo la Scrittura, è quella di protettore del Popolo di Dio (cfr Dn 10, 21; 12, 1).
Cari amici, siate veramente "angeli custodi" delle Chiese che vi saranno affidate! Aiutate il Popolo di Dio, che dovete precedere nel suo pellegrinaggio, a trovare la gioia nella fede e ad imparare il discernimento degli spiriti: ad accogliere il bene e rifiutare il male, a rimanere e diventare sempre di più, in virtù della speranza della fede, persone che amano in comunione col Dio-Amore.
Incontriamo l’Arcangelo Gabriele soprattutto nel prezioso racconto dell’annuncio a Maria dell’incarnazione di Dio, come ce lo riferisce san Luca (1, 26 – 38).
Gabriele è il messaggero dell’incarnazione di Dio. Egli bussa alla porta di Maria e, per suo tramite, Dio stesso chiede a Maria il suo "sì" alla proposta di diventare la Madre del Redentore: di dare la sua carne umana al Verbo eterno di Dio, al Figlio di Dio. Ripetutamente il Signore bussa alle porte del cuore umano.
Nell’Apocalisse dice all’"angelo" della Chiesa di Laodicea e, attraverso di lui, agli uomini di tutti i tempi: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (3, 20). Il Signore sta alla porta – alla porta del mondo e alla porta di ogni singolo cuore. Egli bussa per essere fatto entrare: l’incarnazione di Dio, il suo farsi carne deve continuare sino alla fine dei tempi. Tutti devono essere riuniti in Cristo in un solo corpo: questo ci dicono i grandi inni su Cristo nella Lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi. Cristo bussa. Anche oggi Egli ha bisogno di persone che, per così dire, gli mettono a disposizione la propria carne, che gli donano la materia del mondo e della loro vita, servendo così all’unificazione tra Dio e il mondo, alla riconciliazione dell’universo. Cari amici, è vostro compito bussare in nome di Cristo ai cuori degli uomini. Entrando voi stessi in unione con Cristo, potrete anche assumere la funzione di Gabriele: portare la chiamata di Cristo agli uomini.
San Raffaele ci viene presentato soprattutto nel Libro di Tobia come l’Angelo a cui è affidata la mansione di guarire. Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, al compito dell’annuncio del Vangelo vien sempre collegato anche quello di guarire. Il buon Samaritano, accogliendo e guarendo la persona ferita giacente al margine della strada, diventa senza parole un testimone dell’amore di Dio. Quest’uomo ferito, bisognoso di essere guarito, siamo tutti noi. Annunciare il Vangelo, significa già di per sé guarire, perché l’uomo necessita soprattutto della verità e dell’amore. Dell’Arcangelo Raffaele si riferiscono nel Libro di Tobia due compiti emblematici di guarigione. Egli guarisce la comunione disturbata tra uomo e donna. Guarisce il loro amore. Scaccia i demoni che, sempre di nuovo, stracciano e distruggono il loro amore. Purifica l’atmosfera tra i due e dona loro la capacità di accogliersi a vicenda per sempre.
Nel racconto di Tobia questa guarigione viene riferita con immagini leggendarie. Nel Nuovo Testamento, l’ordine del matrimonio, stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato, viene guarito dal fatto che Cristo lo accoglie nel suo amore redentore. Egli fa del matrimonio un sacramento: il suo amore, salito per noi sulla croce, è la forza risanatrice che, in tutte le confusioni, dona la capacità della riconciliazione, purifica l’atmosfera e guarisce le ferite.
Al sacerdote è affidato il compito di condurre gli uomini sempre di nuovo incontro alla forza riconciliatrice dell’amore di Cristo. Deve essere "l’angelo" risanatore che li aiuta ad ancorare il loro amore al sacramento e a viverlo con impegno sempre rinnovato a partire da esso. In secondo luogo, il Libro di Tobia parla della guarigione degli occhi ciechi. Sappiamo tutti quanto oggi siamo minacciati dalla cecità per Dio. Quanto grande è il pericolo che, di fronte a tutto ciò che sulle cose materiali sappiamo e con esse siamo in grado di fare, diventiamo ciechi per la luce di Dio. Guarire questa cecità mediante il messaggio della fede e la testimonianza dell’amore, è il servizio di Raffaele affidato giorno per giorno al sacerdote e in modo speciale al Vescovo. Così, spontaneamente siamo portati a pensare anche al sacramento della Riconciliazione, al sacramento della Penitenza che, nel senso più profondo della parola, è un sacramento di guarigione. La vera ferita dell’anima, infatti, il motivo di tutte le altre nostre ferite, è il peccato. E solo se esiste un perdono in virtù della potenza di Dio, in virtù della potenza dell’amore di Cristo, possiamo essere guariti, possiamo essere redenti.
"Rimanete nel mio amore", ci dice oggi il Signore nel Vangelo (Gv 15, 9). Nell’ora dell’Ordinazione episcopale lo dice in modo particolare a voi, cari amici. Rimanete nel suo amore! Rimanete in quell’amicizia con Lui piena di amore che Egli in quest’ora vi dona di nuovo! Allora la vostra vita porterà frutto – un frutto che rimane (Gv 15, 16). Affinché questo vi sia donato, preghiamo tutti in quest’ora per voi, cari fratelli. Amen.
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I VESCOVI ORDINANDI
Questi i Presbiteri ai quali il Santo Padre Benedetto XVI conferisce questa mattina l’Ordinazione episcopale:
1. Mons. Mieczysław MOKRZYCKI, del clero dell’Arcidiocesi di Lviv dei Latini, nato il 29 marzo 1961, ordinato Presbitero il 18 dicembre 1987, eletto Arcivescovo Coadiutore di Lviv dei Latini (Ucraina) il 16 luglio 2007.
2. Mons. Francesco Giovanni BRUGNARO, del clero dell’Arcidiocesi di Milano, nato il 16 marzo 1943, ordinato Presbitero il 18 dicembre 1982, eletto Arcivescovo di Camerino – San Severino Marche (Italia) il 3 settembre 2007.
3. Mons. Gianfranco RAVASI, del clero dell’Arcidiocesi di Milano, nato il 18 ottobre 1942, ordinato Presbitero il 28 giugno 1966, eletto Arcivescovo titolare di Villamagna di Proconsolare e nominato Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturale della Chiesa e di Archeologia Sacra il 3 settembre 2007.
4. Mons. Tommaso CAPUTO, del clero dell’Arcidiocesi di Napoli, nato il 17 ottobre 1950, ordinato Presbitero il 10 aprile 1974, eletto Arcivescovo titolare di Otricoli e nominato Nunzio Apostolico in Malta e in Libia il 3 settembre 2007.
5. Mons. Sergio PAGANO, dei Chierici Regolari di San Paolo (Barnabiti), nato il 6 novembre 1948, ordinato Presbitero il 28 maggio 1978, Prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, eletto Vescovo titolare di Celene il 4 agosto 2007.
6. Mons. Vincenzo DI MAURO, del clero dell’Arcidiocesi di Milano, nato il 1° dicembre 1951, ordinato Presbitero il 12 giugno 1976, eletto Vescovo titolare di Arpi e nominato Segretario della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede il 3 settembre 2007.
venerdì 28 settembre 2007
Il Papa saluta le diverse comunità di Castel Gandolfo
INCONTRO DI CONGEDO DALLA DIVERSE COMUNITÀ DI CASTEL GANDOLFO
DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Sala degli Svizzeri
Venerdì, 28 settembre 2007
Cari fratelli e sorelle,
prima di lasciare Castel Gandolfo, desidero rivolgere una parola di cordiale gratitudine a ciascuno di voi, che avete contribuito, in vario modo, a rendere salutare e distensivo questo mio soggiorno estivo. Anzitutto, il mio fraterno saluto va al Vescovo di Albano, Mons. Marcello Semeraro, e si estende con affetto all’intera Diocesi. Saluto poi il Parroco di Castel Gandolfo e la Comunità parrocchiale, come pure le varie Comunità religiose maschili e femminili, che qui vivono ed operano. A ciascuno vorrei dire: il Papa conta sul vostro sostegno spirituale, e vi accompagna con la sua preghiera, perché possiate aderire con costante generosità, alla esigente chiamata alla perfezione evangelica, per servire in letizia e dedizione il Signore e i fratelli.
Vorrei ora, in maniera speciale, ringraziare il Signor Sindaco e i rappresentanti dell’Amministrazione Comunale di Castel Gandolfo. Grazie di cuore per la vostra visita. In questi mesi ho avvertito la vostra vicinanza, e so con quanta cura vi siete occupati di me e di quanti vivono nel Palazzo Apostolico. Tutti conoscono lo stile di cordiale ospitalità che contraddistingue la vostra Città e i suoi abitanti; un’accoglienza che non è riservata solo al Papa, bensì pure ai numerosi pellegrini che vengono a rendergli visita, soprattutto la domenica per il consueto appuntamento dell'Angelus. Vi chiedo, cari amici, di farvi interpreti dei miei grati sentimenti presso l’intera comunità cittadina, che in varie occasioni ho avuto modo di incontrare. A tutti grazie!
Non può certo mancare poi una parola di sincera gratitudine per il personale medico e per gli addetti dei vari Servizi del Governatorato, che in questi mesi hanno lavorato, ciascuno nel proprio settore, con competenza e abnegazione. Cari amici, conosco la vostra disponibilità e i sacrifici che comportano le varie mansioni che siete chiamati a svolgere. Di tutto vi ricompensi il Signore.
Ugualmente, sento il bisogno di rinnovare i miei sentimenti di apprezzamento e di riconoscenza ai funzionari e agli agenti delle diverse Forze dell'Ordine italiane che, con la consueta sollecitudine, hanno affiancato il Corpo della Gendarmeria Vaticana e quello della Guardia Svizzera Pontificia. Grazie per la vostra discreta ed efficiente presenza, che ha facilitato ai pellegrini e ai visitatori l’accesso ordinato e sicuro nel Palazzo Apostolico.
E come, infine, non ricordare gli ufficiali e gli avieri del 31° stormo dell'Aeronautica Militare? Voi, cari amici, adempite un compito quanto mai qualificato e utile, accompagnando me e i miei collaboratori negli spostamenti in elicottero e in aereo. Di questo vostro utile servizio vi sono molto riconoscente.
Cari fratelli e sorelle, mi piacerebbe soffermarmi a parlare con ciascuno di voi, e ringraziarvi personalmente per l’apporto che, con premura e generosità, date al buon funzionamento dell’attività del Papa qui, a Castel Gandolfo. Si tratta spesso di prestazioni nascoste che vi obbligano ad orari faticosi, rimanendo lontano da casa per lunghe ore. In questo modo anche le vostre famiglie sono coinvolte nei sacrifici che dovete affrontare. Per questo, mi preme assicurarvi nuovamente della mia più viva riconoscenza, che estendo ai vostri familiari. Tutti vi porto nell’animo e tutti vi affido alla materna protezione della Beata Vergine Maria, mentre di cuore benedico voi e le persone che vi sono care.
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giovedì 27 settembre 2007
IL PAPA AI VESCOVI UCRAINI DI RITO LATINO: “L’UNITÀ DEI CATTOLICI MOSTRA IL VOLTO AUTENTICO DELLA CHIESA"
Vedi anche:
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI AI VESCOVI DELL'UCRAINA (DI RITO LATINO E DI RITO GRECO-CATTOLICO) IN OCCASIONE DELLA VISITA "AD LIMINA APOSTOLORUM" DEI PRESULI DI RITO LATINO (Lunedì, 24 settembre 2007)
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI AI MEMBRI DELL'EPISCOPATO DI RITO LATINO DELL'UCRAINA IN VISITA "AD LIMINA APOSTOLORUM"
Sala del Concistoro, Castel Gandolfo
Giovedì, 27 settembre 2007
Signor Cardinale,
Venerati Fratelli nell’Episcopato,
“Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro” (Col 1,2)! Con questo saluto apostolico mi rivolgo a voi, membri dell’Episcopato di rito latino dell’Ucraina. A ciascuno auguro quella grazia e quella pace del Signore, che sono il segreto della nostra missione di Vescovi al servizio dell’uomo. Al termine della visita ad limina, che mi ha dato modo di incontrarvi personalmente, di conoscere meglio la realtà di ogni singola vostra Diocesi e di condividere con voi le speranze e i problemi che ne segnano il quotidiano cammino, rendo grazie a Dio per quanto, nel suo amore misericordioso, Egli va compiendo attraverso il vostro ministero pastorale. Un saluto particolare rivolgo al Cardinale Marian Jaworski e lo ringrazio per le sue parole che hanno interpretato il pensiero di tutti voi. Ho colto nel suo intervento il vivo desiderio che nutrite di consolidare tra voi l’unità e la collaborazione per affrontare uniti le grandi sfide sociali, culturali e spirituali del momento presente. Voi non vi stancate di trovare soluzioni possibili, anche nel dialogo con le Autorità locali, con il solo obbiettivo di prendervi cura spirituale del gregge che il Signore vi ha affidato. Con vivo apprezzamento ho preso conoscenza dello sforzo catechetico, liturgico, apostolico e caritativo delle vostre Diocesi: un programma che tende anche a consolidare l’anelito alla cattolicità che fa sentire tutti i battezzati membri dell’unico Corpo di Cristo.
La vostra opera pastorale, venerati Fratelli, si dispiega in un territorio nel quale convivono cattolici di rito latino e di rito greco-cattolico, insieme ad altri credenti che trovano la ragione della propria vita nell’unico Signore Gesù Cristo. Anche fra cattolici non sempre la collaborazione riesce facile, essendo normale che emergano sensibilità differenti, data pure la diversità delle rispettive tradizioni. Ma come non ritenere una provvidenziale opportunità il fatto che coesistano insieme due Comunità distinte nelle loro tradizioni ma pienamente cattoliche, entrambe protese a servire l’unico Kyrios e ad annunciarne il vangelo? L’unità dei cattolici, nella diversità dei riti, e lo sforzo di manifestarla in ogni ambito, mostra il volto autentico della Chiesa Cattolica e costituisce un segno quanto mai eloquente anche per gli altri cristiani e per l’intera società.
Dalla vostra analisi emerge una serie di problematiche, la cui soluzione esige un’indispensabile sinergia delle forze, per un rinnovato annuncio del Vangelo. I lunghi anni della dominazione atea e comunista hanno lasciato evidenti tracce nelle generazioni attuali. Esse sono altrettante sfide che vi interpellano, cari Fratelli, e che sono giustamente al centro delle vostre preoccupazioni e programmazioni pastorali.
“Ut unum sint”! La preghiera di Cristo nel cenacolo risuona costantemente nella Chiesa come invito a ricercare, senza stancarsi, l’unità. Se si consolida la comunione all’interno delle comunità cattoliche sarà più agevole condurre un proficuo dialogo tra la Chiesa Cattolica e le altre Chiese e Comunità ecclesiali. L’esigenza ecumenica è fortemente avvertita da voi, che da lunghi secoli vivete insieme ai nostri fratelli ortodossi e con loro cercate di tessere un quotidiano dialogo che abbraccia tanti aspetti della vita. Le difficoltà, gli ostacoli, e persino eventuali insuccessi non rallentino il vostro entusiasmo nell’andare in questa direzione. Con pazienza e umiltà, con carità, verità e apertura d’animo, il cammino da percorrere diviene meno arduo, soprattutto se non viene mai meno la prospettiva di fondo, la convinzione cioè che tutti i discepoli di Cristo sono chiamati a percorrere le sue orme, lasciandosi guidare docilmente dal suo Spirito, che è sempre all’opera nella Chiesa.
Cari Fratelli, tanti sarebbero gli argomenti affrontati nei nostri colloqui personali, sui quali mi piacerebbe ritornare per incoraggiarvi a proseguire nella strada intrapresa. Penso ad esempio alla fondamentale esigenza di formare in modo adeguato i sacerdoti, perché possano compiere al meglio la loro missione; come pure alla cura delle vocazioni, che costituisce una priorità pastorale per assicurare operai alla messe del Signore. Nella grande maggioranza, i sacerdoti sono testimoni di autentica abnegazione, di generosità gioiosa, di umile adattamento alle precarie situazioni in cui si trovano ad operare, talora anche con difficoltà di tipo economico. Dio li conservi e protegga sempre! Amateli, perché sono per voi collaboratori insostituibili, sosteneteli ed incoraggiateli, pregate con e per loro. Siate per loro padri amorevoli a cui ricorrere con fiducia. Conosco i vostri sforzi con varie iniziative per promuovere le vocazioni. Abbiate cura che nei seminari sia impartita agli aspiranti al sacerdozio una formazione armonica e completa. Accompagnate con paterna sollecitudine i giovani sacerdoti nei primi passi del loro ministero e non trascurate la formazione permanente dei presbiteri. Ho notato con soddisfazione la presenza e l’impegno dei consacrati e delle consacrate: un autentico dono per la crescita spirituale di ogni comunità. La cura delle vocazioni presuppone naturalmente una valida pastorale familiare. La formazione di un laicato che sappia rendere ragione della fede si rende in questi nostri tempi ancor più necessaria e rappresenta uno degli obbiettivi pastorali da perseguire con impegno.
Cari e venerati Fratelli, talora l’insieme delle situazioni, con le relative difficoltà, potrebbe far apparire il vostro lavoro improbo e veramente al di sopra delle forze umane. Non temete, il Signore è sempre con voi! Restate pertanto uniti a Lui nella preghiera e nell’ascolto della sua parola. A Maria, la Vergine Madre di Dio e della Chiesa, affido voi e le vostre Comunità, perché vi protegga e vi guidi sempre con mano materna, mentre vi imparto con affetto la Benedizione Apostolica.
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Paolo VI ha reso alla Chiesa e al mondo un servizio quanto mai prezioso in tempi non facili
CONCERTO IN OCCASIONE DEL 110° ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DEL PAPA PAOLO VI
DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Sala degli Svizzeri, Castel Gandolfo
Mercoledì, 26 settembre 2007
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato,
cari fratelli e sorelle,
Abbiamo trascorso insieme una suggestiva serata musicale, che ci ha dato modo di riascoltare brani certamente noti, ma sempre capaci di suscitare nuove e profonde emozioni spirituali. Significativa è la circostanza che ha motivato quest’evento, e cioè il 110° anniversario della nascita del Servo di Dio Paolo VI, avvenuta a Concesio, il 26 settembre del 1897, proprio come oggi.
Con sentimenti di viva gratitudine, rivolgo il mio saluto a tutti voi, che avete preso parte a questo atto commemorativo di un grande Pontefice, che ha segnato la storia del secolo XX. Un grazie di cuore a chi si è fatto promotore, a chi ha organizzato e a chi ha eseguito con apprezzata maestria questo concerto. Saluto con affetto i Signori Cardinali presenti, ed in particolare il Cardinale Giovanni Battista Re, conterraneo di Papa Montini. Un saluto speciale dirigo al Vescovo Ausiliare di Brescia Mons. Francesco Beschi, che ringrazio per le parole poc’anzi rivoltemi, agli altri Presuli, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose. Estendo poi il mio deferente pensiero alle varie Personalità, che ci onorano della loro presenza, con una menzione speciale per l’On. Ministro della Giustizia, i Sindaci di Brescia e di Bergamo, le altre Autorità civili e militari, come pure i Rappresentanti delle Istituzioni che hanno particolarmente contribuito alla realizzazione di questa significativa manifestazione. Mi preme soprattutto farmi interprete dei comuni sentimenti, esprimendo un grato apprezzamento ai solisti e a tutti i componenti dell’Orchestra del Festival Pianistico Internazionale Arturo Benedetti Michelangeli di Brescia e Bergamo, diretta dal ben noto Maestro Agostino Trizio. Essi, con straordinario talento ed efficacia, hanno eseguito brani musicali di Vivaldi, Bach e Mozart, aiutando il nostro spirito a percepire nel linguaggio musicale l’intima armonia della bellezza divina.
Questa sera l’ascolto di celebri brani musicali ci ha dato occasione di ricordare un illustre Papa, Paolo VI, che ha reso alla Chiesa e al mondo un servizio quanto mai prezioso in tempi non facili ed in condizioni sociali caratterizzate da profondi mutamenti culturali e religiosi. Rendiamo omaggio allo spirito di saggezza evangelica con cui questo mio amato Predecessore ha saputo guidare la Chiesa durante e dopo il Concilio Vaticano II.
Egli ha avvertito, con profetica intuizione, le speranze e le inquietudini degli uomini di quell’epoca; si è sforzato di valorizzarne le esperienze positive cercando di illuminarle con la luce della verità e dell’amore di Cristo, l’unico Redentore dell’umanità. L’amore che nutriva per l’umanità con i suoi progressi, le meravigliose scoperte, i vantaggi e le agevolazioni della scienza e della tecnica, non gli ha però impedito di porre in evidenza le contraddizioni, gli errori e i rischi di un progresso scientifico e tecnologico sganciato da un saldo riferimento a valori etici e spirituali.Il suo insegnamento resta pertanto ancor oggi attuale, e costituisce una fonte a cui attingere per meglio comprendere i testi conciliari ed analizzare gli eventi ecclesiali che hanno caratterizzato la seconda parte del 1900.
Paolo VI è stato prudente e coraggioso nel guidare la Chiesa con un realismo ed un ottimismo evangelico, alimentati da indomita fede. Egli ha auspicato l’avvento della “civiltà dell’amore”, convinto che la carità evangelica costituisce l’elemento indispensabile per costruire un’autentica fraternità universale. Soltanto riconoscendo come Padre Dio, che in Cristo ha rivelato a tutti il suo amore, gli uomini possono diventare e sentirsi realmente fratelli. Soltanto Cristo, vero Dio e vero uomo, può convertire l’animo umano e renderlo capace di contribuire a realizzare una società giusta e solidale. I suoi successori hanno raccolto l’eredità spirituale del Servo di Dio Paolo VI, e sulla stessa scia hanno camminato. Preghiamo perchè il suo esempio e i suoi insegnamenti siano per noi incoraggiamento e stimolo ad amare sempre più Cristo e la Chiesa, animati da quell’indomita speranza che ha sorretto Papa Montini sino al termine della sua esistenza. Con questi sentimenti, nuovamente ringrazio coloro che hanno preparato ed animato quest’incontro musicale e, invocando sui presenti la costante protezione del Signore, di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.
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mercoledì 26 settembre 2007
PAPA: CHIESA PRIMITIVA E' MODELLO PER LA SOCIETA'
I PADRI DELLA CHIESA NELLA CATECHESI DI PAPA BENEDETTO XVI
Il primo bambino è per gli sposi “come un ponte; i tre diventano una carne sola, poiché il figlio congiunge le due parti” (Prima parte della catechesi dedicata a San Giovanni Crisostomo)
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 26 settembre 2007
San Giovanni Crisostomo (2)
Cari fratelli e sorelle!
Continuiamo oggi la nostra riflessione su san Giovanni Crisostomo. Dopo il periodo passato ad Antiochia, nel 397 egli fu nominato Vescovo di Costantinopoli, la capitale dell'Impero romano d'Oriente. Fin dall’inizio, Giovanni progettò la riforma della sua Chiesa: l'austerità del palazzo episcopale doveva essere di esempio per tutti - clero, vedove, monaci, persone della corte e ricchi. Purtroppo, non pochi di essi, toccati dai suoi giudizi, si allontanarono da lui. Sollecito per i poveri, Giovanni fu chiamato anche “l'Elemosiniere”. Da attento amministratore, infatti, era riuscito a creare istituzioni caritative molto apprezzate. La sua intraprendenza nei vari campi ne fece per alcuni un pericoloso rivale. Egli, tuttavia, come vero Pastore, trattava tutti in modo cordiale e paterno. In particolare, riservava accenti sempre teneri per la donna e cure speciali per il matrimonio e la famiglia. Invitava i fedeli a partecipare alla vita liturgica, da lui resa splendida e attraente con geniale creatività.
Nonostante il cuore buono, non ebbe una vita tranquilla. Pastore della capitale dell’Impero, si trovò coinvolto spesso in questioni e intrighi politici, a motivo dei suoi continui rapporti con le autorità e le istituzioni civili. Sul piano ecclesiastico, poi, avendo deposto in Asia nel 401 sei Vescovi indegnamente eletti, fu accusato di aver varcato i confini della propria giurisdizione, e diventò così bersaglio di facili accuse. Un altro pretesto contro di lui fu la presenza di alcuni monaci egiziani, scomunicati dal patriarca Teofilo di Alessandria e rifugiatisi a Costantinopoli. Una vivace polemica fu poi originata dalle critiche mosse dal Crisostomo all'imperatrice Eudossia e alle sue cortigiane, che reagirono gettando su di lui discredito e insulti. Si giunse così alla sua deposizione, nel sinodo organizzato dallo stesso patriarca Teofilo nel 403, con la conseguente condanna al primo breve esilio. Dopo il suo rientro, l’ostilità suscitata contro di lui dalla protesta contro le feste in onore dell’imperatrice – che il Vescovo considerava come feste pagane, lussuose –, e la cacciata dei presbiteri incaricati dei Battesimi nella Veglia pasquale del 404 segnarono l'inizio della persecuzione di Crisostomo e dei suoi seguaci, i cosiddetti “Giovanniti”.
Allora Giovanni denunciò per lettera i fatti al Vescovo di Roma, Innocenzo I. Ma era ormai troppo tardi. Nell’anno 406 dovette di nuovo recarsi in esilio, questa volta a Cucusa, in Armenia. Il Papa era convinto della sua innocenza, ma non aveva il potere di aiutarlo. Un Concilio, voluto da Roma per una pacificazione tra le due parti dell'Impero e tra le loro Chiese, non poté avere luogo. Lo spostamento logorante da Cucusa verso Pytius, mèta mai raggiunta, doveva impedire le visite dei fedeli e spezzare la resistenza dell'esule sfinito: la condanna all'esilio fu una vera condanna a morte! Sono commoventi le numerose lettere dall'esilio, in cui Giovanni manifesta le sue preoccupazioni pastorali con accenti di partecipazione e di dolore per le persecuzioni contro i suoi. La marcia verso la morte si arrestò a Comana nel Ponto. Qui Giovanni moribondo fu portato nella cappella del martire san Basilisco, dove esalò lo spirito a Dio e fu sepolto, martire accanto al martire (Palladio, Vita 119). Era il 14 settembre 407, festa dell’Esaltazione della santa Croce. La riabilitazione ebbe luogo nel 438 con Teodosio II. Le reliquie del santo Vescovo, deposte nella chiesa degli Apostoli a Costantinopoli, furono poi trasportate nel 1204 a Roma, nella primitiva Basilica costantiniana, e giacciono ora nella cappella del Coro dei Canonici della Basilica di San Pietro. Il 24 agosto 2004 una parte cospicua di esse fu donata dal Papa Giovanni Paolo II al Patriarca Bartolomeo I di Costantinopoli. La memoria liturgica del santo si celebra il 13 settembre. Il beato Giovanni XXIII lo proclamò patrono del Concilio Vaticano II.
Di Giovanni Crisostomo si disse che, quando fu assiso sul trono della Nuova Roma, cioè di Costantinopoli, Dio fece vedere in lui un secondo Paolo, un dottore dell'Universo. In realtà, nel Crisostomo c'è un'unità sostanziale di pensiero e di azione ad Antiochia come a Costantinopoli. Cambiano solo il ruolo e le situazioni. Meditando sulle otto opere compiute da Dio nella sequenza dei sei giorni nel commento della Genesi, il Crisostomo vuole riportare i fedeli dalla creazione al Creatore: “È un gran bene”, dice, “conoscere ciò che è la creatura e ciò che è il Creatore”. Ci mostra la bellezza della creazione e la trasparenza di Dio nella sua creazione, la quale diventa così quasi una “scala” per salire a Dio, per conoscerlo. Ma a questo primo passo se ne aggiunge un secondo: questo Dio creatore è anche il Dio della condiscendenza (synkatabasis). Noi siamo deboli nel “salire”, i nostri occhi sono deboli. E così Dio diventa il Dio della condiscendenza, che invia all'uomo caduto e straniero una lettera, la Sacra Scrittura, cosicché creazione e Scrittura si completano. Nella luce della Scrittura, della lettera che Dio ci ha dato, possiamo decifrare la creazione. Dio è chiamato “padre tenero” (philostorgios) (ibid.), medico delle anime (Omelia 40,3 sulla Genesi), madre (ibid.) e amico affettuoso (Sulla provvidenza 8,11-12). Ma a questo secondo passo — prima la creazione come “scala” verso Dio e poi la condiscendenza di Dio tramite una lettera che ci ha dato, la Sacra Scrittura — si aggiunge un terzo passo. Dio non solo ci trasmette una lettera: in definitiva, scende Lui stesso, si incarna, diventa realmente “Dio con noi”, nostro fratello fino alla morte sulla Croce. E a questi tre passi — Dio è visibile nella creazione, Dio ci dà una sua lettera, Dio scende e diventa uno di noi — si aggiunge alla fine un quarto passo. All'interno della vita e dell'azione del cristiano, il principio vitale e dinamico è lo Spirito Santo (Pneuma), che trasforma le realtà del mondo. Dio entra nella nostra stessa esistenza tramite lo Spirito Santo e ci trasforma dall'interno del nostro cuore.
Su questo sfondo, proprio a Costantinopoli Giovanni, nel commento continuato degli Atti degli Apostoli, propone il modello della Chiesa primitiva (At 4,32-37) come modello per la società, sviluppando un’ “utopia” sociale (quasi una “città ideale”). Si trattava infatti di dare un'anima e un volto cristiano alla città.
In altre parole, Crisostomo ha capito che non è sufficiente fare elemosina, aiutare i poveri di volta in volta, ma è necessario creare una nuova struttura, un nuovo modello di società; un modello basato sulla prospettiva del Nuovo Testamento. È la nuova società che si rivela nella Chiesa nascente. Quindi Giovanni Crisostomo diventa realmente così uno dei grandi Padri della Dottrina Sociale della Chiesa: la vecchia idea della “polis” greca va sostituita da una nuova idea di città ispirata alla fede cristiana. Crisostomo sosteneva con Paolo (cfr 1 Cor 8, 11) il primato del singolo cristiano, della persona in quanto tale, anche dello schiavo e del povero. Il suo progetto corregge così la tradizionale visione greca della “polis”, della città, in cui larghi strati della popolazione erano esclusi dai diritti di cittadinanza, mentre nella città cristiana tutti sono fratelli e sorelle con uguali diritti. Il primato della persona è anche la conseguenza del fatto che realmente partendo da essa si costruisce la città, mentre nella “polis” greca la patria era al di sopra del singolo, il quale era totalmente subordinato alla città nel suo insieme. Così con Crisostomo comincia la visione di una società costruita dalla coscienza cristiana. Ed egli ci dice che la nostra “polis” è un'altra, “la nostra patria è nei cieli” (Fil 3, 20) e questa nostra patria anche in questa terra ci rende tutti uguali, fratelli e sorelle, e ci obbliga alla solidarietà.
Al termine della sua vita, dall'esilio ai confini dell'Armenia, “il luogo più remoto del mondo”, Giovanni, ricongiungendosi alla sua prima predicazione del 386, riprese il tema a lui caro del piano che Dio persegue nei confronti dell'umanità: è un piano “indicibile e incomprensibile”, ma sicuramente guidato da Lui con amore (cfr Sulla provvidenza 2,6). Questa è la nostra certezza. Anche se non possiamo decifrare i dettagli della storia personale e collettiva, sappiamo che il piano di Dio è sempre ispirato dal suo amore. Così, nonostante le sue sofferenze, il Crisostomo riaffermava la scoperta che Dio ama ognuno di noi con un amore infinito, e perciò vuole la salvezza di tutti. Da parte sua, il santo Vescovo cooperò a questa salvezza generosamente, senza risparmiarsi, lungo tutta la sua vita. Considerava infatti ultimo fine della sua esistenza quella gloria di Dio, che – ormai morente – lasciò come estremo testamento: “Gloria a Dio per tutto!” (Palladio, Vita 11).
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San Giovanni Crisostomo in "Monastero Virtuale"
domenica 23 settembre 2007
La vita è in verità sempre una scelta: tra onestà e disonestà, tra fedeltà e infedeltà, tra egoismo e altruismo, tra bene e male
VISITA PASTORALE DEL PAPA A VELLETRI (23 SETTEMBRE 2007): LO SPECIALE DEL BLOG
CELEBRAZIONE EUCARISTICA IN PIAZZA SAN CLEMENTE A VELLETRI
OMELIA DEL SANTO PADRE
Cari fratelli e sorelle!
Sono tornato volentieri in mezzo a voi per presiedere questa solenne celebrazione eucaristica, rispondendo ad un vostro reiterato invito. Sono tornato con gioia per incontrare la vostra comunità diocesana, che per diversi anni è stata in modo singolare anche la mia e che mi resta tuttora tanto cara. Vi saluto tutti con affetto. Saluto, in primo luogo, il Signor Cardinale Francis Arinze, che mi è succeduto come Cardinale titolare di questa Diocesi; saluto il vostro Pastore, il caro Mons. Vincenzo Apicella, che ringrazio per le cortesi parole di benvenuto con cui ha voluto accogliermi a nome vostro. Saluto gli altri Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, gli operatori pastorali, i giovani e quanti sono attivamente impegnati nelle parrocchie, nei movimenti, nelle associazioni e nelle varie attività diocesane. Saluto il Commissario Prefettizio di Velletri, i Sindaci dei Comuni della Diocesi di Velletri-Segni e le altre Autorità civili e militari, che ci onorano della loro presenza. Saluto quanti sono venuti da altre parti, in particolare dalla Germania, per unirsi a noi in questo giorno di festa. Vincoli di amicizia legano la mia terra natale alla vostra: ne è testimone la colonna di bronzo donatami a Marktl am Inn nel settembre dello scorso anno, in occasione del viaggio apostolico in Germania e che ben volentieri ho voluto restasse qui, come ulteriore segno del mio affetto e della mia benevolenza.
So che vi siete preparati all'odierna mia visita attraverso un intenso cammino spirituale, adottando come motto un versetto assai significativo della Prima Lettera di Giovanni: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi" (4,16). Deus caritas est, Dio è amore: con queste parole inizia la mia prima Enciclica, che concerne il centro della nostra fede: l'immagine cristiana di Dio e la conseguente immagine dell'uomo e del suo cammino. Mi rallegro che voi abbiate scelto come guida dell'itinerario spirituale e pastorale della Diocesi proprio questa espressione: "Noi abbiamo riconosciuto l'amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto". L'odierna nostra assemblea liturgica non può pertanto non focalizzarsi su questa verità essenziale, sull'amore di Dio, capace di imprimere all'esistenza umana un orientamento e un valore assolutamente nuovi. L'amore è l'essenza del Cristianesimo, che rende il credente e la comunità cristiana fermento di speranza e di pace in ogni ambiente, attenti specialmente alle necessità dei poveri e dei bisognosi. L'amore fa vivere la Chiesa.
Nelle passate domeniche, san Luca, l'evangelista che più degli altri si preoccupa di mostrare l'amore che Gesù ha per i poveri, ci ha offerto diversi spunti di riflessione circa i pericoli di un attaccamento eccessivo al denaro, ai beni materiali e a tutto ciò che ci impedisce di vivere in pienezza la nostra vocazione ad amare Dio e i fratelli. Anche quest'oggi, attraverso una parabola che provoca in noi una certa meraviglia perché si parla di un amministratore disonesto che viene lodato (cfr Lc 16,1-13), a ben vedere il Signore ci riserva un serio e quanto mai salutare insegnamento. Come sempre Egli trae spunto da fatti di cronaca quotidiana: narra di un amministratore che sta sul punto di essere licenziato per disonesta gestione degli affari del suo padrone e, per assicurarsi il futuro, cerca con furbizia di accordarsi con i debitori. E' certamente un disonesto, ma astuto: il Vangelo non ce lo presenta come modello da seguire nella sua disonestà, ma come esempio da imitare per la sua previdente scaltrezza. La breve parabola si conclude infatti con queste parole: "Il padrone lodò quell'amministratore disonesto perché aveva agito con scaltrezza" (Lc 16,8).
Che cosa vuole dirci Gesù? Alla parabola del fattore infedele, l'evangelista fa seguire una breve serie di detti e di ammonimenti circa il rapporto che dobbiamo avere con il denaro e i beni di questa terra. Sono piccole frasi che invitano ad una scelta che presuppone una decisione radicale, una costante tensione interiore.
La vita è in verità sempre una scelta: tra onestà e disonestà, tra fedeltà e infedeltà, tra egoismo e altruismo, tra bene e male. Incisiva e perentoria la conclusione del brano evangelico: "Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro". In definitiva, dice Gesù, occorre decidersi: "Non potete servire a Dio e mammona" (Lc 16,13).
Mammona è un termine di origine fenicia che evoca sicurezza economica e successo negli affari; potremmo dire che nella ricchezza viene indicato l'idolo a cui si sacrifica tutto pur di raggiungere il proprio successo personale. È necessaria quindi una decisione fondamentale - la scelta tra la logica del profitto come criterio ultimo nel nostro agire e la logica della condivisione e della solidarietà.
La logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra poveri e ricchi, come pure un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo, per il bene comune di tutti. In fondo si tratta della decisione tra l'egoismo e l'amore, tra la giustizia e la disonestà, in definitiva tra Dio e Satana.
Se amare Cristo e i fratelli non va considerato come qualcosa di accessorio e di superficiale, ma piuttosto lo scopo vero ed ultimo di tutta la nostra esistenza, occorre saper operare scelte di fondo, essere disposti a radicali rinunce, se necessario sino al martirio. Oggi, come ieri, la vita del cristiano esige il coraggio di andare contro corrente, di amare come Gesù, che è giunto sino al sacrificio di sé sulla croce.
Potremmo allora dire, parafrasando una considerazione di sant'Agostino, che per mezzo delle ricchezze terrene dobbiamo procurarci quelle vere ed eterne: se infatti si trova gente pronta ad ogni tipo di disonestà pur di assicurarsi un benessere materiale pur sempre aleatorio, quanto più noi cristiani dovremmo preoccuparci di provvedere alla nostra eterna felicità con i beni di questa terra (cfr Discorsi 359,10). Ora, l'unica maniera di far fruttificare per l'eternità le nostre doti e capacità personali come pure le ricchezze che possediamo è di condividerle con i fratelli, mostrandoci in tal modo buoni amministratori di quanto Iddio ci affida. Dice Gesù: "Chi è fedele nel poco, è fedele nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto" (Lc 16,10-11).
Della stessa scelta fondamentale da compiere giorno per giorno parla oggi nella prima lettura il profeta Amos. Con parole forti, egli stigmatizza uno stile di vita tipico di chi si lascia assorbire da un'egoistica ricerca del profitto in tutti i modi possibili e che si traduce in una sete di guadagno, in un disprezzo dei poveri e in uno sfruttamento della loro situazione a proprio vantaggio (cfr Am 4,5). Il cristiano deve respingere con energia tutto questo, aprendo il cuore, al contrario, a sentimenti di autentica generosità. Una generosità che, come esorta l'apostolo Paolo nella seconda Lettura, si esprime in un amore sincero per tutti e si manifesta in primo luogo nella preghiera. Grande gesto di carità è pregare per gli altri. L'Apostolo invita in primo luogo a pregare per quelli che rivestono compiti di responsabilità nella comunità civile, perché - egli spiega - dalle loro decisioni, se tese a realizzare il bene comune, derivano conseguenze positive, assicurando la pace e "una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità" per tutti (1 Tm 2,2). Non venga pertanto mai meno la nostra preghiera, apporto spirituale all'edificazione di una Comunità ecclesiale fedele a Cristo e alla costruzione d'una società più giusta e solidale.
Cari fratelli e sorelle, preghiamo, in particolare, perché la vostra comunità diocesana, che sta subendo una serie di trasformazioni, dovute al trasferimento di molte famiglie giovani provenienti da Roma, allo sviluppo del "terziario" e all'insediamento nei centri storici di molti immigrati, conduca un'azione pastorale sempre più organica e condivisa, seguendo le indicazioni che il vostro Vescovo va offrendo con spiccata sensibilità pastorale. A questo riguardo, quanto mai opportuna si è rivelata la sua Lettera Pastorale del dicembre scorso con l'invito a mettersi in ascolto attento e perseverante della Parola di Dio, degli insegnamenti del Concilio Vaticano II e del Magistero della Chiesa. Deponiamo nelle mani della Madonna delle Grazie, la cui immagine è custodita e venerata in questa vostra bella Cattedrale, ogni vostro proposito e progetto pastorale. La materna protezione di Maria accompagni il cammino di voi qui presenti e di quanti non hanno potuto partecipare all'odierna nostra Celebrazione eucaristica. In special modo, vegli la Vergine Santa sugli ammalati, sugli anziani, sui bambini, su chiunque si sente solo e abbandonato o versa in particolari necessità. Ci liberi Maria dalla cupidigia delle ricchezze, e faccia sì che alzando al cielo mani libere e pure, rendiamo gloria a Dio con tutta la nostra vita (cfr Colletta). Amen!
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Il Papa a Velletri: la cronaca della visita
Vedi anche:
VISITA PASTORALE DEL PAPA A VELLETRI (23 SETTEMBRE 2007): LO SPECIALE DEL BLOG
VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI A VELLETRI , 23.09.2007
L’ARRIVO A VELLETRI
Alle ore 8.45 di questa mattina il Santo Padre Benedetto XVI parte in auto dal Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo per la Visita Pastorale a Velletri.
Al Suo arrivo in Corso della Repubblica, all’ingresso del complesso della Cattedrale, il Papa è accolto dall’Em.mo Card. Francis Arinze, del Titolo della Chiesa Suburbicaria di Velletri-Segni, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, e da S.E. Mons. Vincenzo Apicella, Vescovo di Velletri-Segni. Nel chiostro antistante la Cattedrale, il Santo Padre riceve il saluto delle Autorità civili: l’On. Piero Marrazzo, Presidente della Regione Lazio; il Dottor Carlo Mosca, Prefetto di Roma; il Dottor Stefano Trotta, Commissario Prefettizio del Comune di Velletri; l’On. Enrico Gasbarra, Presidente della Provincia di Roma, con i Sindaci dei comuni in Diocesi di Velletri-Segni e alcuni Parlamentari nativi di Velletri.
All’ingresso in Cattedrale, il Papa venera la preziosa icona "Crux Veliterna", quindi si reca nella Cappella della Madonna delle Grazie per una breve adorazione del Santissimo Sacramento e la venerazione dell’icona della Madonna.
CELEBRAZIONE EUCARISTICA IN PIAZZA SAN CLEMENTE
Lasciata la Cattedrale, il Papa raggiunge processionalmente l’antistante Piazza San Clemente dove alle ore 9.30 presiede la Celebrazione Eucaristica. Concelebrano con il Santo Padre l’Em.mo Card. Francis Arinze, Cardinale titolare; S.E. Mons. Vincenzo Apicella, Vescovo di Velletri-Segni; S.E. Mons. Andrea Maria Erba, Vescovo emerito; S.E. Mons. Josef Clemens, Canonico onorario della Cattedrale; S.E. Mons. Lorenzo Loppa, Vescovo di Anagni-Alatri e cinquanta sacerdoti della Diocesi.
Nel corso della Santa Messa, introdotta dal saluto del Vescovo, Mons. Vincenzo Apicella, dopo la proclamazione del Vangelo il Papa pronuncia l’omelia.
Terminata la Celebrazione eucaristica in Piazza San Clemente, prima di rientrare in Cattedrale il Santo Padre Benedetto XVI benedice la Colonna commemorativa in bronzo donataGli un anno fa da cento città bavaresi, in occasione del Suo Viaggio Apostolico in Germania e per i Suoi ottanta anni. L’opera è stata prodotta in due esemplari: uno si trova a Marktl am Inn, paese natale di Papa Benedetto XVI, l’altra - che oggi viene benedetta - è stata destinata dal Santo Padre come dono alla diocesi di Velletri-Segni, della quale è stato Cardinale titolare dal 1993 e fino alla Sua elezione al pontificato. Partecipa alla cerimonia una Delegazione dalla Germania ed è presente l’autore della colonna commemorativa, lo scultore bavarese Joseph Michael Neustifter.
Congedatosi infine dalle Autorità, alle ore 11.30 il Santo Padre lascia Velletri e rientra al Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo per la recita dell’Angelus.
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Il denaro non è "disonesto" in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo
VIDEO DI SKYTG24
LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS , 23.09.2007
Alle ore 12 di oggi, rientrato dalla Visita Pastorale alla diocesi di Velletri, il Santo Padre Benedetto XVI si affaccia al balcone del Cortile interno del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo e recita l’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini presenti.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:
PRIMA DELL’ANGELUS
Cari fratelli e sorelle!
Questa mattina ho reso visita alla diocesi di Velletri della quale sono stato Cardinale titolare per diversi anni. È stato un incontro familiare, che mi ha permesso di rivivere momenti del passato ricchi di esperienze spirituali e pastorali. Nel corso della solenne Celebrazione eucaristica, commentando i testi liturgici, ho avuto modo di soffermarmi a riflettere sul retto uso dei beni terreni, un tema che in queste domeniche l’evangelista Luca, in vari modi, ha riproposto alla nostra attenzione. Raccontando la parabola di un amministratore disonesto ma assai scaltro, Cristo insegna ai suoi discepoli quale è il modo migliore di utilizzare il denaro e le ricchezze materiali, e cioè condividerli con i poveri procurandosi così la loro amicizia, in vista del Regno dei cieli. "Procuratevi amici con la disonesta ricchezza – dice Gesù – perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (Lc 16,9). Il denaro non è "disonesto" in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l’uomo in un cieco egoismo. Si tratta dunque di operare una sorta di "conversione" dei beni economici: invece di usarli solo per interesse proprio, occorre pensare anche alle necessità dei poveri, imitando Cristo stesso, il quale – scrive san Paolo – "da ricco che era si fece povero per arricchire noi con la sua povertà" (2 Cor 8,9). Sembra un paradosso: Cristo non ci ha arricchiti con la sua ricchezza, ma con la sua povertà, cioè con il suo amore che lo ha spinto a darsi totalmente a noi.
Qui potrebbe aprirsi un vasto e complesso campo di riflessione sul tema della ricchezza e della povertà, anche su scala mondiale, in cui si confrontano due logiche economiche: la logica del profitto e quella della equa distribuzione dei beni, che non sono in contraddizione l’una con l’altra, purché il loro rapporto sia bene ordinato. La dottrina sociale cattolica ha sempre sostenuto che l’equa distribuzione dei beni è prioritaria. Il profitto è naturalmente legittimo e, nella giusta misura, necessario allo sviluppo economico. Giovanni Paolo II così scrisse nell’Enciclica Centesimus annus: "la moderna economia d’impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la libertà della persona, che si esprime in campo economico come in tanti altri campi" (n. 32). Tuttavia, egli aggiunse, il capitalismo non va considerato come l’unico modello valido di organizzazione economica (cfr ivi, 35). L’emergenza della fame e quella ecologica stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile.
Maria Santissima, che nel Magnificat proclama: il Signore "ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote" (Lc 1,53), aiuti i cristiani ad usare con saggezza evangelica, cioè con generosa solidarietà, i beni terreni, ed ispiri ai governanti e agli economisti strategie lungimiranti che favoriscano l’autentico progresso di tutti i popoli.
DOPO L’ANGELUS
Si è tenuto in questi giorni a Roma il Primo Incontro Mondiale di Sacerdoti, Diaconi, Religiosi e Religiose Zingari, organizzato dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. Ai partecipanti, che seguono l’Angelus da Piazza San Pietro, rivolgo il mio cordiale saluto. Cari fratelli e sorelle, il tema del vostro convegno: "Con Cristo al servizio del popolo zingaro", diventi sempre più realtà nella vita di ciascuno di voi. Per questo prego e vi affido alla protezione della Vergine Maria.
Desidero inoltre ricordare che oggi in Italia la Società di San Vincenzo de Paoli attua una campagna contro l’analfabetismo, grave piaga sociale che interessa ancora molte persone in varie regioni del mondo. A questa iniziativa auguro il miglior successo e colgo l’occasione per rivolgere un saluto cordiale ai bambini e ai ragazzi che hanno da poco iniziato il nuovo anno scolastico, come pure naturalmente ai loro insegnanti. Buona scuola a tutti!
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sabato 22 settembre 2007
Il Papa ai Vescovi: siate uomini di preghiera!
UDIENZA AI PARTECIPANTI ALLA RIUNIONE DEI VESCOVI DI RECENTE NOMINA , 22.09.2007
Questa mattina, nella Sala degli Svizzeri del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti alla Riunione dei Vescovi di recente nomina e rivolge loro il discorso che riportiamo di seguito:
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Carissimi Fratelli nell’episcopato,
è ormai consuetudine da diversi anni che i Vescovi di recente nomina si ritrovino insieme a Roma per un incontro che viene vissuto come un pellegrinaggio alla tomba di San Pietro. Vi accolgo con particolare affetto. L’esperienza che state facendo, oltre che a stimolarvi nella riflessione sulle responsabilità ed i compiti di un Vescovo, vi consente di ravvivare nei vostri animi la consapevolezza che non siete soli nel reggere la Chiesa di Dio, ma avete, insieme con l’aiuto della grazia, il sostegno del Papa e quello dei vostri Confratelli.
L’essere al centro della cattolicità, in questa Chiesa di Roma, apre i vostri animi ad una più viva percezione dell’universalità del Popolo di Dio e fa crescere in voi la sollecitudine per tutta la Chiesa.
Ringrazio il Cardinale Giovanni Battista Re per le parole con cui ha interpretato i vostri sentimenti e rivolgo un particolare pensiero a Mons. Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, mentre saluto ciascuno di voi andando con il pensiero alle vostre diocesi.
Il giorno dell’Ordinazione episcopale, prima dell’imposizione delle mani, la Chiesa chiede al candidato di assumere alcuni impegni fra i quali, oltre quello di annunziare con fedeltà il Vangelo e custodire la fede, vi è anche quello di "perseverare nella preghiera a Dio onnipotente per il bene del suo popolo santo". Vorrei soffermarmi con voi proprio sul carattere apostolico e pastorale della preghiera del Vescovo.
L’evangelista Luca scrive che Gesù Cristo scelse i dodici Apostoli dopo aver passato sul monte tutta la notte a pregare (Lc 6,12); e l’evangelista Marco precisa che i Dodici furono scelti perchè "stessero con lui e per mandarli" (Mc 3,14). Come gli Apostoli anche noi, carissimi Confratelli, in quanto loro successori, siamo stati chiamati innanzitutto per stare con Cristo, per conoscerlo più profondamente ed essere partecipi del suo mistero di amore e della sua relazione piena di confidenza con il Padre. Nella preghiera intima e personale il Vescovo, come e più di tutti i fedeli, è chiamato a crescere nello spirito filiale verso Dio, apprendendo da Gesù stesso la confidenza, la fiducia e la fedeltà, atteggiamenti suoi propri nel rapporto col Padre.
E gli Apostoli avevano compreso bene come l’ascolto nella preghiera e l’annuncio delle cose ascoltate dovevano avere il primato sulle molte cose da fare, perché decisero: "Noi ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola" (At 6,4).
Questo programma apostolico è quanto mai attuale. Oggi, nel ministero di un Vescovo, gli aspetti organizzativi sono assorbenti, gli impegni sono molteplici, le necessità sempre tante, ma il primo posto nella vita di un successore degli Apostoli deve essere riservato a Dio.
Già San Gregorio Magno nella "Regola pastorale" avvertiva che il pastore "in modo singolare deve essere capace di elevarsi su tutti gli altri per la preghiera e la contemplazione (II, 5). È quanto la tradizione ha poi formulato con la nota espressione: "Contemplata aliis tradere" (cfr San Tommaso, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 188, art. 6).
Nell’Enciclica "Deus caritas est ", riferendomi alla narrazione dell’episodio biblico della scala di Giacobbe, ho voluto evidenziare come proprio attraverso la preghiera il pastore divenga sensibile e misericordioso verso tutti (cfr n. 7). E ho ricordato il pensiero di San Gregorio Magno, secondo il quale il pastore radicato nella contemplazione sa accogliere le necessità degli altri, che nella preghiera diventano sue: "per pietatis viscera in se infirmitatem caeterorum transferat " (Regola pastorale, ibid.). La preghiera educa all’amore e apre il cuore alla carità pastorale per accogliere tutti coloro che ricorrono al Vescovo. Egli, plasmato interiormente dallo Spirito Santo, consola con il balsamo della grazia divina, illumina con la luce della Parola, riconcilia ed edifica nella comunione fraterna. Nella vostra preghiera, cari Confratelli, un particolare posto devono avere i vostri sacerdoti, affinché siano sempre perseveranti nella vocazione e fedeli alla missione presbiterale loro affidata. È quanto mai edificante per ogni sacerdote sapere che il Vescovo, dal quale ha ricevuto il dono del sacerdozio o che comunque è il suo padre e amico, gli è vicino nella preghiera, nell’affetto ed è sempre pronto ad accoglierlo, ascoltarlo, sostenerlo ed incoraggiarlo. Ugualmente non deve mai mancare nella preghiera del Vescovo la supplica per le nuove vocazioni. Esse devono essere chieste con insistenza a Dio, affinché chiami "quelli che egli vuole" per il sacro ministero.
Il munus santificandi che avete ricevuto vi impegna, inoltre, ad essere animatori di preghiera nella società. Nelle città in cui vivete e operate, spesso convulse e rumorose, dove l’uomo corre e si smarrisce, dove si vive come se Dio non esistesse, sappiate creare luoghi ed occasioni di preghiera, dove nel silenzio, nell’ascolto di Dio mediante la lectio divina, nella preghiera personale e comunitaria, l’uomo possa incontrare Dio e fare l’esperienza viva di Gesù Cristo che rivela l’autentico volto del Padre. Non stancatevi di procurare che le parrocchie ed i Santuari, gli ambienti di educazione e di sofferenza, ma anche le famiglie diventino luoghi di comunione con il Signore. In modo particolare vorrei esortarvi a fare della Cattedrale un esemplare casa di preghiera, soprattutto liturgica, dove la comunità diocesana riunita con il suo Vescovo possa lodare e ringraziare Dio per l’opera della salvezza e intercedere per tutti gli uomini. Sant’Ignazio di Antiochia ci ricorda la forza della preghiera comunitaria: "Se la preghiera di uno o di due ha tanta forza, quanto più quella del Vescovo e di tutta la Chiesa!" (Lettera agli Efesini, n. 5).
In breve, carissimi Vescovi, siate uomini di preghiera! La "fecondità spirituale del ministero del Vescovo dipende dall’intensità della sua unione col Signore. È dalla preghiera che un Vescovo deve attingere luce, forza, e conforto nella sua attività pastorale", come scrive il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi (Apostolorum successores, n. 36).
Nel rivolgervi a Dio per voi stessi e per i vostri fedeli abbiate la fiducia dei figli, l’audacia dell’amico, la perseveranza di Abramo, che fu instancabile nell’intercessione. Come Mosè abbiate le mani alzate verso il cielo, mentre i vostri fedeli combattono la buona battaglia della fede. Come Maria sappiate ogni giorno lodare Dio per la salvezza che egli opera nella Chiesa e nel mondo, convinti che nulla è impossibile a Dio (Lc 1,37).
Con questi sentimenti imparto a ciascuno di voi, ai vostri sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, ai seminaristi e ai fedeli delle vostre Diocesi una speciale Benedizione Apostolica.
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venerdì 21 settembre 2007
Alcune reti terroristiche rimproverano l'Occidente di avere dimenticato Dio
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Lo splendido discorso del Papa ai politici cristiani e la sparata del nobel Fo
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UDIENZA AI PARTECIPANTI ALL’INCONTRO PROMOSSO DALL’INTERNAZIONALE DEMOCRATICA DI CENTRO E DEMOCRATICO CRISTIANA (IDC), 21 SETTEMBRE 2007
Questa mattina, nella Sala degli Svizzeri del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti all’Incontro promosso dall’Internazionale Democratica di Centro e Democratico Cristiana (IDC) e rivolge loro il discorso che riportiamo di seguito:
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Signor Presidente,
onorevoli Parlamentari,
distinti Signore e Signori!
Sono lieto di accogliervi durante i lavori del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Democratica di Centro e Democratico Cristiana e desidero, anzitutto, rivolgere un cordiale saluto alle numerose Delegazioni presenti, che provengono da tante nazioni del mondo. Un particolare saluto dirigo al Presidente, On. Pier Ferdinando Casini, e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto a nome dei presenti. La vostra visita mi dà l’opportunità di offrire alla vostra attenzione alcune considerazioni su valori e ideali che sono stati forgiati o approfonditi in maniera decisiva dalla tradizione cristiana in Europa e nel mondo intero.
So che voi, pur nella varietà delle vostre provenienze, condividete non pochi dei suoi principi, come ad esempio la centralità della persona ed il rispetto dei diritti umani, l’impegno per la pace e la promozione della giustizia per tutti. Voi fate pertanto riferimento a principi fondamentali, che sono tra loro correlati, come dimostra l’esperienza della storia.
Quando, in effetti, i diritti umani sono violati, è la stessa dignità della persona ad essere ferita; se la giustizia vacilla, la pace è in pericolo. D’altra parte, la giustizia, dal canto suo, può dirsi veramente umana, solo se la visione etica e morale sulla quale si fonda è centrata sulla persona e sulla sua inalienabile dignità.
Onorevoli Signori e Signore, la vostra attività, che si ispira a tali principi, oggi è resa ancor più difficile dal clima di profondi mutamenti che vivono le nostre comunità. Per questo vorrei ancor più incoraggiarvi a proseguire nello sforzo di servire il bene comune, adoperandovi a far sì che non si diffondano, né si rafforzino ideologie che possono oscurare o confondere le coscienze e veicolare una illusoria visione della verità e del bene.
Esiste, ad esempio, in campo economico una tendenza che identifica il bene con il profitto e in tal modo dissolve la forza dell’ethos dall’interno, finendo per minacciare il profitto stesso. Alcuni ritengono che la ragione umana sia incapace di cogliere la verità e, pertanto, di perseguire il bene corrispondente alla dignità della persona. C’è poi chi valuta legittima l’eliminazione della vita umana nella sua fase prenatale o in quella terminale. Preoccupante è inoltre la crisi in cui versa la famiglia, cellula fondamentale della società fondata sul matrimonio indissolubile di un uomo e di una donna. L’esperienza dimostra che quando la verità dell’uomo è oltraggiata, quando la famiglia è minata nelle sue fondamenta, la pace stessa è minacciata, il diritto rischia di essere compromesso e, come logica conseguenza, si va incontro a ingiustizie e violenze.
C’è un altro ambito che a voi sta a cuore ed è quello della difesa della libertà religiosa, diritto fondamentale insopprimibile, inalienabile ed inviolabile, radicato nella dignità di ogni essere umano e riconosciuto da vari documenti internazionali, fra i quali, anzitutto, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. L’esercizio di tale libertà comprende anche il diritto di cambiare religione, che va garantito non soltanto giuridicamente, bensì pure nella pratica quotidiana.
La libertà religiosa risponde, infatti, all’intrinseca apertura della creatura umana a Dio, Verità piena e Bene sommo e la sua valorizzazione costituisce un’espressione fondamentale di rispetto della ragione umana e della sua capacità di verità. L’apertura alla trascendenza costituisce una garanzia indispensabile per la dignità umana perché ci sono aneliti ed esigenze del cuore di ogni persona che solo in Dio trovano comprensione e risposta. Non si può pertanto escludere Dio dall’orizzonte dell’uomo e della storia! Ecco perché va accolto il desiderio comune a tutte le tradizioni autenticamente religiose di mostrare pubblicamente la propria identità, senza essere costretti a nasconderla o mimetizzarla.
Il rispetto della religione contribuisce, inoltre, a smentire il ripetuto rimprovero di aver dimenticato Dio, con cui alcune reti terroristiche cercano pretestuosamente di giustificare le loro minacce alla sicurezza delle società occidentali. Il terrorismo rappresenta un fenomeno gravissimo, che spesso arriva a strumentalizzare Dio e disprezza in maniera ingiustificabile la vita umana. La società ha certo il diritto di difendersi, ma questo diritto, come ogni altro, va sempre esercitato nel pieno rispetto delle regole morali e giuridiche anche per quanto concerne la scelta degli obiettivi e dei mezzi. Nei sistemi democratici l'uso della forza non giustifica mai la rinuncia ai principi dello stato di diritto. Si può, infatti, proteggere la democrazia minacciandone le fondamenta?
Occorre dunque tutelare strenuamente la sicurezza della società e dei suoi membri, salvaguardando tuttavia i diritti inalienabili di ogni persona. Il terrorismo va combattuto con determinazione ed efficacia, nella consapevolezza che, se il male è un mistero pervasivo, la solidarietà degli uomini nel bene è un mistero ancor più diffusivo.
La dottrina sociale della Chiesa Cattolica offre, al riguardo, elementi di riflessione utili per promuovere la sicurezza e la giustizia, sia a livello nazionale che internazionale, a partire dalla ragione, dal diritto naturale ed anche dal Vangelo, a partire cioè da quanto è conforme alla natura di ogni essere umano ed anche la trascende.
La Chiesa sa che non è suo compito far essa stessa valere politicamente questa sua dottrina: del resto suo obbiettivo è servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale (cfr Deus caritas est, 28).
In questa sua missione, la Chiesa è mossa dall’amore per Dio e per l’uomo e dal desiderio di collaborare con tutte le persone di buona volontà per costruire un mondo dove vengano salvaguardati la dignità e i diritti inalienabili di tutte le persone. A quanti condividono la fede in Cristo, la Chiesa chiede di testimoniarla oggi, con ancor più grande coraggio e generosità. La coerenza dei cristiani è infatti indispensabile anche nella vita politica, perché il "sale" dell’impegno apostolico non perda il suo "sapore" e la "luce" degli ideali evangelici non venga oscurata nella loro azione quotidiana.
Onorevoli Signori e Signore, grazie ancora una volta per questa vostra gradita visita. Mentre formulo fervidi voti per il vostro lavoro, assicuro un ricordo nella preghiera perché Iddio benedica voi, le vostre famiglie e vi ottenga saggezza, coerenza e vigore morale per servire la grande e nobile causa dell’uomo e del bene comune.
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mercoledì 19 settembre 2007
Il primo bambino è per gli sposi “come un ponte; i tre diventano una carne sola, poiché il figlio congiunge le due parti”
I PADRI DELLA CHIESA NELLA CATECHESI DI PAPA BENEDETTO XVI
PAPA: CHIESA PRIMITIVA E' MODELLO PER LA SOCIETA' (Seconda parte della catechesi dedicata a San Giovanni Crisostomo)
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Esilarante battuta del Papa sulle tasse!
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UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 settembre 2007
San Giovanni Crisostomo, la vita
Cari fratelli e sorelle!
Quest'anno ricorre il sedicesimo centenario della morte di san Giovanni Crisostomo (407-2007). Giovanni di Antiochia, detto Crisostomo, cioè “Bocca d'oro” per la sua eloquenza, può dirsi vivo ancora oggi, anche a motivo delle sue opere. Un anonimo copista lasciò scritto che esse “attraversano tutto l'orbe come fulmini guizzanti”. I suoi scritti permettono anche a noi, come ai fedeli del suo tempo, che ripetutamente furono privati di lui a causa dei suoi esili, di vivere con i suoi libri, nonostante la sua assenza. E’ quanto egli stesso suggeriva dall’esilio in una sua lettera (cfr A Olimpiade, Lettera 8,45).
Nato intorno al 349 ad Antiochia di Siria (oggi Antakya, nel sud della Turchia), vi svolse il ministero presbiterale per circa undici anni, fino al 397, quando, nominato Vescovo di Costantinopoli, esercitò nella capitale dell’Impero il ministero episcopale prima dei due esilî, seguiti a breve distanza l'uno dall'altro, fra il 403 e il 407. Ci limitiamo oggi a considerare gli anni antiocheni del Crisostomo.
Orfano di padre in tenera età, visse con la madre, Antusa, che trasfuse in lui una squisita sensibilità umana e una profonda fede cristiana. Frequentati gli studi inferiori e superiori, coronati dai corsi di filosofia e di retorica, ebbe come maestro Libanio, pagano, il più celebre rétore del tempo. Alla sua scuola, Giovanni divenne il più grande oratore della tarda antichità greca. Battezzato nel 368 e formato alla vita ecclesiastica dal Vescovo Melezio, fu da lui istituito lettore nel 371. Questo fatto segnò l’ingresso ufficiale del Crisostomo nel cursus ecclesiastico. Frequentò, dal 367 al 372, l'Asceterio, una sorta di seminario di Antiochia, insieme con un gruppo di giovani, alcuni dei quali divennero poi Vescovi, sotto la guida del famoso esegeta Diodoro di Tarso, che avviò Giovanni all'esegesi storico-letterale, caratteristica della tradizione antiochena.
Si ritirò poi per quattro anni tra gli eremiti sul vicino monte Silpio. Proseguì quel ritiro per altri due anni, vissuti da solo in una grotta sotto la guida di un “anziano”. In quel periodo si dedicò totalmente a meditare “le leggi di Cristo”, i Vangeli e specialmente le Lettere di Paolo. Ammalatosi, si trovò nell’impossibilità di curarsi da solo, e dovette perciò ritornare nella comunità cristiana di Antiochia (cfr Palladio, Vita 5). Il Signore - spiega il biografo - intervenne con l'infermità al momento giusto per permettere a Giovanni di seguire la sua vera vocazione. In effetti scriverà lui stesso che, posto nell'alternativa di scegliere tra le traversie del governo della Chiesa e la tranquillità della vita monastica, avrebbe preferito mille volte il servizio pastorale (cfr Sul sacerdozio, 6,7): proprio a questo il Crisostomo si sentiva chiamato. E qui si compie la svolta decisiva della sua storia vocazionale: pastore d'anime a tempo pieno! L’intimità con la Parola di Dio, coltivata durante gli anni del romitaggio, aveva maturato in lui l’urgenza irresistibile di predicare il Vangelo, di donare agli altri quanto egli aveva ricevuto negli anni della meditazione. L'ideale missionario lo lanciò così, anima di fuoco, nella cura pastorale.
Fra il 378 e il 379 ritornò in città. Diacono nel 381 e presbitero nel 386, divenne celebre predicatore nelle chiese della sua città. Tenne omelie contro gli ariani, seguite da quelle commemorative dei martiri antiocheni e da altre sulle festività liturgiche principali: si tratta di un grande insegnamento della fede in Cristo, anche alla luce dei suoi Santi.
Il 387 fu l’“anno eroico” di Giovanni, quello della cosiddetta “rivolta delle statue”. Il popolo abbatté le statue imperiali, in segno di protesta contro l'aumento delle tasse. Si vede che alcune cose nella storia non cambiano! In quei giorni di Quaresima e di angoscia a motivo delle incombenti punizioni da parte dell'imperatore, egli tenne le sue 22 vibranti Omelie sulle statue, finalizzate alla penitenza e alla conversione. Seguì il periodo della serena cura pastorale (387-397).
Il Crisostomo si colloca tra i Padri più prolifici: di lui ci sono giunti 17 trattati, più di 700 omelie autentiche, i commenti a Matteo e a Paolo (Lettere ai Romani, ai Corinti, agli Efesini e agli Ebrei), e 241 lettere. Non fu un teologo speculativo. Trasmise, però, la dottrina tradizionale e sicura della Chiesa in un'epoca di controversie teologiche suscitate soprattutto dall'arianesimo, cioè dalla negazione della divinità di Cristo. È pertanto un testimone attendibile dello sviluppo dogmatico raggiunto dalla Chiesa nel IV-V secolo. La sua è una teologia squisitamente pastorale, in cui è costante la preoccupazione della coerenza tra il pensiero espresso dalla parola e il vissuto esistenziale. È questo, in particolare, il filo conduttore delle splendide catechesi, con le quali preparava i catecumeni a ricevere il Battesimo. Prossimo alla morte, scrisse che il valore dell'uomo sta nella “conoscenza esatta della vera dottrina e nella rettitudine della vita” (Lettera dall'esilio). Le due cose, conoscenza della verità e rettitudine nella vita, vanno insieme: la conoscenza deve tradursi in vita. Ogni suo intervento mirò sempre a sviluppare nei fedeli l'esercizio dell'intelligenza, della vera ragione, per comprendere e tradurre in pratica le esigenze morali e spirituali della fede.
Giovanni Crisostomo si preoccupa di accompagnare con i suoi scritti lo sviluppo integrale della persona, nelle dimensioni fisica, intellettuale e religiosa. Le varie fasi della crescita sono paragonate ad altrettanti mari di un immenso oceano: “Il primo di questi mari è l'infanzia” (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). Infatti “proprio in questa prima età si manifestano le inclinazioni al vizio e alla virtù”. Perciò la legge di Dio deve essere fin dall’inizio impressa nell'anima “come su una tavoletta di cera” (Omelia 3,1 sul Vangelo di Giovanni): di fatto è questa l'età più importante. Dobbiamo tener presente come è fondamentale che in questa prima fase della vita entrino realmente nell’uomo i grandi orientamenti che danno la prospettiva giusta all’esistenza. Crisostomo perciò raccomanda: “Fin dalla più tenera età premunite i bambini con armi spirituali, e insegnate loro a segnare la fronte con la mano” (Omelia 12,7 sulla prima Lettera ai Corinzi). Vengono poi l'adolescenza e la giovinezza: “All'infanzia segue il mare dell'adolescenza, dove i venti soffiano violenti..., perchè in noi cresce... la concupiscenza” (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). Giungono infine il fidanzamento e il matrimonio: “Alla giovinezza succede l'età della persona matura, nella quale sopraggiungono gli impegni di famiglia: è il tempo di cercare moglie” (ibid.). Del matrimonio egli ricorda i fini, arricchendoli – con il richiamo alla virtù della temperanza – di una ricca trama di rapporti personalizzati. Gli sposi ben preparati sbarrano così la via al divorzio: tutto si svolge con gioia e si possono educare i figli alla virtù. Quando poi nasce il primo bambino, questi è “come un ponte; i tre diventano una carne sola, poiché il figlio congiunge le due parti” (Omelia 12,5 sulla Lettera ai Colossesi), e i tre costituiscono “una famiglia, piccola Chiesa” (Omelia 20,6 sulla Lettera agli Efesini).
La predicazione del Crisostomo si svolgeva abitualmente nel corso della liturgia, “luogo” in cui la comunità si costruisce con la Parola e l'Eucaristia. Qui l'assemblea riunita esprime l'unica Chiesa (Omelia 8,7 sulla Lettera ai Romani), la stessa parola è rivolta in ogni luogo a tutti (Omelia 24,2 sulla prima Lettera ai Corinzi), e la comunione eucaristica si rende segno efficace di unità (Omelia 32,7 sul Vangelo di Matteo).
Il suo progetto pastorale era inserito nella vita della Chiesa, in cui i fedeli laici col Battesimo assumono l'ufficio sacerdotale, regale e profetico. Al fedele laico egli dice: “Pure te il Battesimo fa re, sacerdote e profeta” (Omelia 3,5 sulla seconda Lettera ai Corinzi). Scaturisce di qui il dovere fondamentale della missione, perché ciascuno in qualche misura è responsabile della salvezza degli altri: “Questo è il principio della nostra vita sociale... non interessarci solo di noi!” (Omelia 9,2 sulla Genesi). Il tutto si svolge tra due poli: la grande Chiesa e la “piccola Chiesa”, la famiglia, in reciproco rapporto.
Come potete vedere, cari fratelli e sorelle, questa lezione del Crisostomo sulla presenza autenticamente cristiana dei fedeli laici nella famiglia e nella società, rimane ancor oggi più che mai attuale. Preghiamo il Signore perché ci renda docili agli insegnamenti di questo grande Maestro della fede.
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San Giovanni Crisostomo in "Monastero Virtuale"
lunedì 17 settembre 2007
MONS.BAGNASCO: CRITICHE AL PAPA DA CATTEDRE DISCUTIBILISSIME
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Prolusione di Mons.Bagnasco: interviste a Galli Della Loggia e De Rita
Prolusione di Mons. Bagnasco: gli articoli di Avvenire
Prolusione di Mons.Bagnasco: gli articoli del Corriere della sera
Prolusione di Mons. Bagnasco: gli articoli del Giornale e del Quotidiano Nazionale
Prolusione di Mons. Bagnasco: i commenti di Repubblica e Stampa
I giornaloni parlano della prolusione di Mons. Bagnasco ma tacciono la parte piu' importante: la dichiarazione di fedeltà dei vescovi al Papa
Messa tridentina: le parole di Mons. Bagnasco
Conferenza Episcopale Italiana
CONSIGLIO PERMANENTE
Roma, 17-19 settembre 2007
PROLUSIONE DEL PRESIDENTE
Venerati e cari Confratelli,
ci ritroviamo dopo la pausa estiva, all’indomani dell’incontro dei nostri giovani col Santo Padre a Loreto, e alla vigilia quasi della Settimana sociale del centenario, che si svolgerà tra Pistoia e Pisa a metà del mese di ottobre. A unirci sono i vincoli della fede e di una comunione intessuta di fraternità ed amicizia, protesi come siamo alla condivisione della medesima sollecitudine pastorale, per la crescita della fede del nostro popolo.
Invochiamo la sapienza del Signore e la grazia dello Spirito, perché i nostri pensieri e il nostro lavoro siano conformi a ciò che Dio si attende da noi.
1 E il primo pensiero va proprio al recentissimo incontro dei giovani italiani ed europei con Benedetto XVI nella vallata di Montorso, in quel di Loreto. Com’è noto, un analogo convegno, ma naturalmente in un diverso contesto, si era già svolto nel settembre 1995 per invito allora del Servo di Dio Giovanni Paolo II. A dodici anni di distanza, e con una nuova popolazione giovanile, l’incontro si è ora ripetuto come appuntamento intermedio che vuol tenere accesa la fiaccola tra la Giornata mondiale della Gioventù di Colonia e la prossima, programmata a Sidney per l’estate 2008.
Ebbene, non ci poteva essere, per noi e per le nostre comunità, un inizio d’anno più entusiasmante e più carico di promesse di quello vissuto a Loreto. Per il numero dei partecipanti e per la qualità della presenze, l’incontro ha realmente superato ogni attesa. A conferma del fatto che i giovani sanno essere i migliori interpreti della sorpresa che è Dio nelle nostre vite. Quando poi i giovani si uniscono al Papa, sembra quasi che le loro potenzialità vengano come esaltate.
Davvero, possiamo dire anche noi con Benedetto XVI, “quale stupendo spettacolo di fede” è stato − nei suoi diversi momenti − questo appuntamento, per il quale non cesseremo di ringraziare il Signore e la Madre santa. Ritrovarsi a Loreto non ci si sbaglia: quel luogo ha legato a sé una ispirazione speciale. Ma un ringraziamento grande, pieno di ammirazione, lo dobbiamo al Papa stesso, per i doni che ci ha fatto, con la sua presenza e la sua parola. Il dialogo che egli ha intessuto con i giovani, la sua capacità di ascolto, la prontezza e la spontaneità delle sue parole,l’interpretazione che ha dato della loro vita, la comunicazione dello sguardo e dei gesti, sono stati tutti elementi che hanno creato una immediata e straordinaria intesa.
2 Molti di noi, e moltissimi dei nostri Sacerdoti, hanno accompagnato i loro giovani a Loreto, e dunque hanno vissuto di persona quella esperienza, nei suoi aspetti fondamentali. A partire dall’ospitalità che è stata offerta, in avvicinamento a Loreto, dalle 32 diocesi della Romagna, dell’Umbria, dell’Abruzzo e delle Marche, le quali hanno mirabilmente messo a disposizione ciò che di meglio – per fede, storia e arte – potevano porgere ai giovani pellegrini. Ma sono stati proprio gli interventi del Papa a segnare in profondità l’evento, sia nel dialogo intrecciato con i giovani durante la veglia del sabato sia soprattutto nelle parole dell’omelia domenicale. Da subito ha puntato a personalizzare la proposta: “Sì, c’è speranza anche oggi – ha detto nella prima risposta – ciascuno di voi è importante, perché ognuno è conosciuto e voluto da Dio e per ognuno Dio ha un suo progetto”. E quando questo progetto si realizza, non esistono periferie, perché “dove c’è Cristo c’è tutto il centro”. Come non esistono ostacoli insormontabili: “Non abbiate timore – diceva nel discorso della veglia – Cristo può colmare le aspirazioni più intime del vostro cuore… Ciascuno di voi, se resta unito a Cristo, può compiere grandi cose… Niente è impossibile per chi si fida di Dio e si affida a Lui”. E siccome “Dio cerca cuori giovani, cerca giovani dal cuore grande”, ecco che il Papa, attualizzando nella Messa le letture della liturgia, indicava la via del coraggio umile, dell’andare controcorrente: “non ascoltate le voci interessate e suadenti che oggi da molte parti propagandano modelli di vita improntati all’arroganza e alla violenza, alla prepotenza e al successo ad ogni costo, all’apparire e all’avere, a scapito dell’essere”.
Contenuti importanti, anzi decisivi direi, quelli che il Santo Padre ha indicato, e che la nostra Pastorale giovanile non mancherà ora di riproporre in modo adeguato, facendone i capisaldi di una catechesi argomentata. È importante infatti che i giovani siano aiutati a interiorizzare la proposta del Papa, e questo sarà anche il modo per interiorizzare l’esperienza stessa di Loreto.
Su tutto, c’è un messaggio che ricaviamo per noi e per tutti i sacerdoti della nostra Chiesa: che dobbiamo osare, e osare sempre, nel lavoro del Vangelo.
3 La premura del Papa per l’Italia apparirà ancora una volta domenica prossima, nella visita che ha in programma alla diocesi suburbicaria di Velletri, e fra un mese nel viaggio apostolico che lo porterà a Napoli, dove andrà a rinforzare il desiderio di rinascita che quella gente esprime in una tribolata realtà sociale ed economica.
Ancora vivissima è l’eco del pellegrinaggio che il Santo Padre ha compiuto dal 7 al 9 settembre in Austria. L’occasione prossima era data dall’850° anniversario del Santuario di Mariazell, il più importante del Paese e molto frequentato anche dai fedeli di nazioni vicine. Ma il viaggio si è rivelato come un appuntamento ideale con l’intera Europa, di cui l’Austria è come un ponte che unisce l’Est all’Ovest. In ogni sua tappa, questo viaggio ha tenuto presente il contesto dell’Europa, i problemi e la vocazione del nostro continente. E in ogni suo discorso Benedetto XVI ha dimostrato di saper parlare all’uomo del nostro tempo, con parole forti e di grande fascino.
Nel corso degli ultimi mesi peraltro sono venuti dalla Sede Apostolica interventi importanti sotto il profilo ecclesiologico e pastorale, e che bene esprimono la sollecitudine di Benedetto XVI. È un’azione che trova nei Vescovi italiani una ricezione speciale. Gli siamo vicini con la nostra pronta e incondizionata collaborazione sempre, e in modo particolare quando emergono nell’opinione pubblica voci critiche e discordanti. A ben guardare, sono episodi che in nessuna stagione hanno risparmiato i romani Pontefici. È singolare peraltro quella ricorrente pretesa – mossa da “cattedre” discutibilissime – di misurare la fedeltà altrui, Papa compreso, facendola coincidere ovviamente con i propri stilemi e le proprie evoluzioni.
L’iniziativa su cui si è maggiormente concentrata negli ultimi mesi l’attenzione anche intraecclesiale è il “Motu proprio” Summorum Pontificum, relativo all’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, ed entrato ufficialmente in vigore dal 14 settembre scorso. L’obiettivo di questo pronunciamento è chiaramente tutto spirituale e pastorale. Infatti, da una parte “fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa” – come scrive il Papa nella preziosa lettera di accompagnamento del “Motu proprio” –; dall’altra parte è necessario “fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente”.
In questo orizzonte egli chiede di includere come espressione “straordinaria” nella lex orandi della Chiesa il Messale Romano promulgato da San Pio V e aggiornato dal beato Giovanni XXIII nel 1962, posto che la via “ordinaria” resta il Messale Romano varato da Paolo VI nel 1970. E insiste nel precisare che non ci saranno due riti, ma “un uso duplice dell’unico e medesimo rito”, che tutti vogliamo sia sempre più al centro della dinamica ecclesiale, occasione di una piena “riconciliazione” e di un’unità viva nella Chiesa stessa.
4. Quella che il Papa ci sprona ad adottare, oltre le spinte culturali cui si è fatalmente soggetti, è dunque una chiave di lettura inclusiva, non oppositiva. Nella storia della liturgia, come nella vita della Chiesa, c’è “crescita e progresso, ma nessuna rottura”, come già egli ebbe modo di affermare nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. In quella sede infatti, commemorando il 40° anniversario del Concilio Vaticano II, ha indicato valida non “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, bensì quella della “riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”.
In altre parole, è la sollecitudine per l’unità della Chiesa “nello spazio e nel tempo” la leva che muove Benedetto XVI, una tensione che fondamentalmente tocca al Successore di Pietro.
Ma questa passione per l’unità deve muovere ogni cristiano e ogni pastore dinanzi alle prospettive che si aprono con il “Motu proprio”. Non dunque ricerca di un proprio lusso estetico, slegato dalla comunità, e magari in opposizione ad altri, ma volontà di includersi sempre di più nel Mistero della Chiesa che prega e celebra, senza escludere alcuno e senza preclusione ostativa verso altre forme liturgiche o nei confronti del Concilio Vaticano II. Solo così si eviterà che un provvedimento volto ad unire e ad infervorare maggiormente la comunità cristiana sia invece usato per ferirla e dividerla.
Vorrei tuttavia aggiungere che sono ragionevolmente ottimista sulla migliore valorizzazione del “Motu proprio” nella vita delle nostre parrocchie. E confido che talune preoccupazioni pessimiste, da subito emerse, si riveleranno presto infondate. Il senso di equilibrio che da sempre caratterizza il nostro clero e dunque la nostra pastorale farà trovare, grazie all’azione moderatrice dei Vescovi, i modi giusti per far germinare il virgulto nuovo dalla pianta viva della liturgia ecclesiale, e anzi, in ultima istanza, per rilanciare e incrementare questa nel suo insieme.
5 Ma c’è un altro intervento di Benedetto XVI che vorrei qui richiamare, il discorso che egli ha fatto in apertura del convegno pastorale della Diocesi di Roma – l’11 giugno scorso – sul tema dell’educazione. In quella sede veniva affrontato in modo esplicito, ossia come “educazione alla fede, alla sequela e alla testimonianza”. E infatti con questa scansione il Papa l’ha effettivamente affrontato, non mancando tuttavia di segnalare come “oggi, in realtà, ogni opera di educazione sembra diventare sempre più ardua e precaria. Si parla perciò – spiegava – di una grande emergenza educativa, della crescente difficoltà che si incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento”. Una disamina che non lascia margini ad illusioni, considerata la società in cui viviamo, afflitta da uno strano “odio di sé”, e considerata la cultura odierna che fa del “relativismo il proprio credo”, precludendosi in tal modo la possibilità di distinguere la verità e quindi di poterla perseguire.
Come non leggere qui in filigrana le tante vicende di cronaca che hanno assediato la nostra estate, suscitando sgomento e sempre ulteriore allerta? Come non intravedere qui l’atteggiamento di resa che contrassegna tanta prassi sociale, in cui a prevalere sono il divismo, il divertimento spinto ad oltranza, i passatempi solo apparentemente innocui, il disimpegno nichilista e abbrutente la persona, giovane o adulta non importa, ché, tanto, verso il peggio le differenze si annullano?
Su questo tema ingente dell’educazione, possibile anche in una cultura che produce facilmente banalità e omologazione, immagino che come Conferenza episcopale dovremo tornare, alla luce delle piste lanciate dal Papa, con una riflessione articolata che coinvolga magari i diversi soggetti pastorali, e che si stagli all’orizzonte con propositi di un impegno all’altezza delle sfide.
6 Giova tuttavia ricordare che durante il Convegno ecclesiale di Verona – del quale, ad un anno di distanza, vogliamo fare grata memoria – furono già dette cose significative e preziose in ordine all’educare. Non a caso, nella recentissima Nota pastorale che raccoglie i frutti del Convegno, è rifluita buona parte di quelle acquisizioni. Una delle quali mi preme richiamare, non perché sia inedita ma perché è basilare. Mi riferisco all’esigenza ormai da tutti riconosciuta di raccogliere e coltivare sempre meglio l’unità della persona: essa è continuamente insidiata dalla frantumazione e dallo smarrimento, dovuto non tanto alla necessaria articolazione delle esperienze quanto piuttosto alla mancanza di criteri di interpretazione e di sintesi. Il clima di materialismo in cui viviamo tende a sfilacciare le persone e a frantumare i loro punti di vista, in una estenuazione che vorrebbe rendere patetico qualunque richiamo alla coerenza.
Ma il vuoto non si regge in piedi e la vita concreta non si divide a settori o momenti tra loro incomunicabili. Di qui la preziosità dell’indicazione a cui si è giunti a Verona, che peraltro registra consapevolezze già presenti nel nostro laicato più impegnato. Così, quando al numero 12 della Nota si ripercorrono i cinque ambiti sui quali si erano modulati i lavori del Convegno, si vuole dire proprio questo: è la persona, nelle sue dimensioni costitutive, ad essere il soggetto-interlocutore diretto della nostra attenzione pastorale. Dunque, nessun astrattismo si dovrebbe rintracciare nelle nostre iniziative, ma una proposta concreta, che abbraccia la vita, e che porta tutta l’esistenza all’incontro risanatore e liberante di Cristo.
Ed è qui la ragione, a me pare, che sfugge a tanti osservatori “laici”, per la quale anche nell’ambito politico il cattolico cerca una corrispondenza plausibile tra ideali e programmi. Diceva il Papa, nel citato discorso alla diocesi di Roma: “La consapevolezza di essere chiamati a diventare testimoni di Cristo non è pertanto qualcosa che si aggiunge dopo, una conseguenza in qualche modo esterna alla formazione cristiana…”. Questo, mi sia consentita l’osservazione, è esattamente il punto: in nessun ambito, neppure in politica, si possono tralasciare – per opportunismo, o convenzione, o altri motivi – le esigenze etiche intrinseche alla fede. E ciò non in disprezzo, ma per amore della politica e della sottile arte che essa esige.
7 La vicenda di padre Giancarlo Bossi, il missionario rapito nelle Filippine e infine – grazie a Dio – rilasciato (e presente a Loreto con una testimonianza di grande efficacia), come le vite di passione di tutti i nostri missionari, non fanno che renderci consapevoli che questo, anche questo nostro tempo, è tempo di serietà nella fede fino anche al martirio. Il sangue dei martiri non può essere tradito: essi accettano la persecuzione e la morte sempre e solo per amore di Gesù, della Chiesa, e degli uomini che servono in nome di Cristo.
Fin dalle origini, la testimonianza è elemento costitutivo della fede cristiana. I moltissimi fratelli e sorelle che in duemila anni hanno dato e continuano oggi a dare la vita in molte parti del mondo, ci ricordano che non possiamo puntare al ribasso nella vita cristiana, stemperando le esigenze alte del Vangelo e percorrendo la strada dei compromessi dottrinali o morali.
In un simile contesto, amiamo ricordare la testimonianza che offrono i nostri confratelli Vescovi nelle zone più tribolate dalle malversazioni e dai delitti di mafia, camorra e ‘ndrangheta: sappiano che siamo loro vicini e solidali, che li sosteniamo con la preghiera, ammirati della loro dedizione al Vangelo e dell’attaccamento al popolo loro affidato. In tale prospettiva, potrebbe essere opportuno, da parte della nostra Conferenza, riprendere e aggiornare la riflessione che a suo tempo rifluì nel documento dell’Episcopato italiano – “Sviluppo nella solidarietà. Chiesa Italiana e Mezzogiorno” – del 1989.
8 Partecipando – col cuore di Vescovi – alla vita del nostro Paese, e osservando le dinamiche singolari che talora si sviluppano, o certi modelli che si diffondono e fenomeni che improvvisamente prendono piede, c’è un interrogativo che sorge e che formulerei così: esiste una modalità, compatibile con la democrazia, grazie alla quale nutrire un ethos collettivo partecipato e ad un tempo capace di resistere e sopravanzare rispetto alle dissipazioni del costume?
Non è una domanda oziosa. Come non lo è quest’altra: lo Stato, inteso come comunità politica strutturata, ha solo il compito di registrare e in qualche modo regolamentare le spinte comportamentali che emergono dal corpo sociale, o deve anche promuovere un’idea di bene comune da perseguire e dunque trasmettere alle generazioni di domani, in un progetto di società aperta e insieme capace di futuro? So bene che sullo sfondo di simili interrogativi qualcuno potrebbe paventare i fantasmi di uno Stato etico, che in realtà però nessuno vuole, e che noi meno di tutti potremmo accettare. E tuttavia, la preoccupazione di non aprire la strada a queste derive non può essere un alibi che impedisce di affrontare questioni che sono e saranno sempre più decisive.
9 Mi limito qui ad osservare che c’è un legame che unisce il cittadino allo Stato e che questo legame è in concreto condizionato dalla capacità effettiva dello Stato stesso di farsi promotore e garante del bene comune. Si può, d’altro canto, osservare che vi sono situazioni e comportamenti socialmente deplorevoli, anzi criminali, che non riescono a trovare soluzione: pensiamo, ad esempio, al dramma recente e crescente degli incendi boschivi provocati dall’uomo che in questa ultima estate hanno messo in ginocchio intere zone del Paese. Alla luce di simili fatti, ma anche di altre tendenze comportamentali, sembra che diventi sempre più friabile il vincolo sociale e si prosciughi quel tipo di solidarietà su cui una comunità strutturata deve fare affidamento, se vuole essere un paese-non-spaesato.
Ebbene, a me pare illusorio sperare in un improvviso quanto miracolistico rinsavimento morale, se al punto in cui ci troviamo non avviene una ricentratura profonda, da parte dei singoli soggetti e degli organismi sociali, sul senso e sulla ragione dello stare insieme come comunità di destini e di intenti. E se, grazie anche al contributo della religione e alla considerazione ad essa riservata, non acquisteranno una evidenza nuova e una credibilità proporzionata i valori essenziali per una convivenza.
Sono tuttavia convinto che la realtà del nostro popolo non sia assolutamente rappresentata, né tanto meno definita, dai fenomeni peggiori a cui tanta enfasi viene data nella pubblica opinione, rischiando di creare tendenza, quasi si trattasse di nuove scuole di pensiero e di vita. La componente sana della società è ampiamente maggioritaria: nel silenzio dignitoso e in spirito di sacrificio, con ancoraggio alla fede cristiana o per ispirazione a quell’umanesimo non astratto né generico che nel Vangelo trova radici sempre fresche, essa vive i propri doveri, vive la realtà della famiglia e le varie relazioni, vive la sfida irripetibile della propria esistenza terrena con serietà, onestà e dedizione.
10 Dinanzi ai grandi interrogativi cui si è fatto cenno, finiscono per acquistare un valore nuovo le stesse occasioni che il nostro mondo cattolico è solito darsi per “studiare” il tempo presente e utilmente confrontarsi con le istanze che provengono da altri filoni di pensiero o da diverse impostazioni culturali. Dico questo pensando concretamente alla prossima Settimana sociale, in calendario dal 18 al 21 ottobre e che si svolgerà a Pistoia e Pisa. Città scelte non a caso, perché lì prese vita un secolo fa quel movimento delle Settimane sociali che si rivelerà assai significativo nei decenni successivi, quale “luogo” dal quale si contribuì al formarsi di un ethos che corrispondesse ai compiti di uno Stato moderno, partecipato e solidale.
Il tema che è stato individuato dal competente Comitato scientifico e organizzatore è quanto mai cruciale: “Il bene comune oggi”, con un sottotitolo che precisa “un impegno che viene da lontano” ma che sa osare uno sguardo adeguato sul domani, come è ben spiegato nel documento predisposto in vista appunto dell’incontro, e come è stato fruttuosamente lumeggiato nei tre seminari preparatori svoltisi nei mesi scorsi.
Inutile dire l’attesa che nutriamo verso questo appuntamento, nel quale verrà opportunamente messa a fuoco quell’idea di bene comune che è stato uno dei cavalli di battaglia più qualificanti il nostro cattolicesimo sociale, e che nella dottrina del Concilio Vaticano II, come nel magistero più recente dei Papi, ha trovato una trattazione così illuminante da imporsi come ossatura di ogni successivo sviluppo.
11 Attenta com’è alla persona umana, nella sua dimensione sociale e trascendente, la Chiesa non può disinteressarsi dell’esperienza fondamentale del lavoro e dunque anche della Formazione professionale. La giusta attenzione alla formazione permanente e alla riqualificazione lavorativa a favore degli adulti non deve far dimenticare – come sembra accadere in varie Regioni – l’attività di formazione al lavoro da destinare ai giovani: se così si facesse, si finirebbe col far aumentare, anche sotto questo aspetto, le differenze tra il Nord e il Sud del Paese, e si disperderebbe un patrimonio educativo che è stato garantito per decenni da vari enti, anche d’ispirazione cristiana. Il sistema della Formazione professionale – rivelatosi fino ad oggi strumento valido per una crescita basilare dei giovani e per il loro inserimento socio-lavorativo, oltre che preziosa opportunità di prevenzione dal disagio sociale e dalla dispersione scolastica – deve trovare oggi, attraverso un adeguato raccordo tra provvedimenti nazionali e regionali, una nuova definizione che gli faccia superare disomogeneità e frantumazione e lo rilanci in tutto il territorio.
Un altro problema particolarmente acuto, cui come Pastori veniamo continuamente interessati, è quello della casa. Mi riferisco in particolare al dramma di coloro – pensionati o famiglie con un solo reddito – che sono raggiunti da provvedimenti di sfratto e non trovano altre opportunità. Ma pensiamo anche ai giovani fidanzati che vorrebbero sposarsi e nei loro progetti sono annichiliti per il problema dell’abitazione che non si trova oppure è inavvicinabile per le loro risorse. Ci sono inoltre situazioni di promiscuità, dove famiglie diverse sono costrette a vivere in uno stesso appartamento, magari fatiscente, e per ciò stesso non in grado di garantire un vicendevole rispetto.
Su questo fronte, la collettività ai vari livelli deve darsi uno slancio, e approntare quelle soluzioni di edilizia popolare che per vaste zone e in una serie di città appaiono veramente urgenti. Anche agli istituti bancari e di credito vorrei far presente questa emergenza perché, tenendo conto delle condizioni internazionali e secondo le loro possibilità e competenze, vogliano maggiormente contribuire con senso di equità ad una concreata soluzione del problema.
12 Cari Confratelli, mentre ringraziamo il Signore Gesù per il grande bene presente nelle nostre Chiese, non ci nascondiamo le difficoltà e neppure le contraddizioni che il nostro tempo presenta: la storia insegna che ogni epoca porta con sé le sue proprie sfide sul piano religioso, culturale, e socio-politico. Ma porta anche le sue opportunità. Si tratta di luci e ombre che abbiamo evidenziato già negli Orientamenti pastorali per il decennio e più recentemente nella citata Nota pastorale che vuol dar seguito al Convegno ecclesiale di Verona. Come uomini di fede, sappiamo che la storia ha la sua teologia, e dunque è sempre storia di salvezza in quanto procede verso il suo fine, che non è la notte del nulla, ma la luce di Dio. Sappiamo che il Signore Gesù sa trarre il bene per le vie misteriose della sua Pasqua. Sappiamo altresì che ogni epoca non è mai solamente “tempo” (cronos), ma è sempre anche “grazia” (kairòs). Guardiamo dunque a quest’ora con lo sguardo e il cuore di Cristo buon Pastore. È questo sguardo teologale che, insieme ai nostri carissimi Sacerdoti, vogliamo che cresca nelle nostre comunità. Per questo, di fronte a ostacoli e – talora – incomprensioni, non ci abbandoniamo a recriminazioni sterili, e neppure ci affidiamo soltanto a pur opportune metodiche pastorali; ma ci sentiamo chiamati, come inguaribili Pastori, a spremere dal nostro cuore un supplemento d’amore verso tutti.
Amore che si sostanzia della fede nella Croce gloriosa di Cristo e in un più grande sacrificio di noi stessi. Sospinti da questo amore evangelico, non possiamo tacere: a tutti, sempre e dovunque, annunciamo la lieta verità di Dio che è Padre e la lieta verità dell’uomo che risplende in Gesù di Nazareth. Da duemila anni rimbalza da cuore a cuore, da generazione a generazione, la gioiosa notizia del Vangelo che è luce amica di tutti.
Sappiamo che le parole di Cristo rispondono agli interrogativi ultimi della ragione, ma anche sostengono e stimolano la ragione stessa nella ricerca delle verità più profonde sull’uomo e sul creato. Sollecitandola altresì a non accontentarsi di risposte solo immediate e di superficie.
Come non ricordare qui i nostri carissimi Sacerdoti? A loro, che ogni giorno spendono se stessi per il servizio e il bene della gente, sorretti dall’amore di Cristo che colma e rallegra ogni fatica e ogni solitudine, rinnoviamo il nostro affetto di Pastori e la gratitudine della Chiesa.
13 Il valore intangibile della persona e della vita umana, vita che deve essere accolta e accudita fin dal sorgere, ed amorevolmente accompagnata fino al suo naturale tramonto; la famiglia fondata sul matrimonio, cellula fondante e inarrivabile di ogni società; la libertà dei genitori nell’educare i figli; il sereno senso del limite che accompagna la parabola dell’umana esistenza; il codice morale che si radica nell’essere profondo e universale dell’uomo e si esplicita e perfeziona in Gesù; la libertà che – lungi dall’essere mero arbitrio – è impegnativa adesione al bene e alla verità: vedo qui i capisaldi della storia e della tradizione del nostro popolo. Essi costituiscono l’ethos di fondo che – nonostante incoerenze e nuove sfide – dà corpo a quel senso di reciproco riconoscimento e di comune appartenenza che ci fa sentire “società”, “casa” aperta e accogliente verso tutti coloro che vogliono rispettosamente entrare. Sovviene quel che diceva il teorico marxista Roger Garaudy, nel suo studio intitolato “Il marxismo e la morale” (1948): “Il cristianesimo ha creato una nuova dimensione dell’uomo: quella della persona umana. Tale nozione era così estranea al razionalismo classico che i Padri greci non erano capaci di trovare nella filosofia greca le categorie e le parole per esprimere questa nuova realtà. Il pensiero ellenico non era in grado di concepire che l’infinito e l’universale potessero esprimersi in una persona”.
Come la storia dimostra, la vera civiltà non nasce da una buona organizzazione, ma da un’anima buona, cioè da quell’insieme di ideali spirituali, alti e nobili, che riguardano non tanto il funzionamento di un’esistenza, ma il senso dell’esistere. Riaffiora un’affermazione del poeta latino Giovenale: “Considera sommo crimine… perdere per la vita le ragioni del vivere”. È vero, ci sono valori ai quali vale la pena dedicare la vita: barattarli, questi valori, significherebbe annichilire le sorgenti della vita stessa. Là dove essa perderebbe il suo significato. E ciò vale per i singoli come per la società: anche un Paese e la sua civiltà hanno contenuti culturali e valori spirituali che giustificano l’impegno di una vita. Quando questi non esistono più o sono irreparabilmente aggrediti, allora vengono meno le fondamenta stesse e le energie vitali che sostengono ogni autentica comunità.
Solo su simili premesse, che vanno continuamente custodite e alimentate, un Paese vive e prospera. Ed ecco perché ogni attentato alla vita, alla famiglia, alla libertà educativa, alla giustizia e alla pace… troverà sempre una parola rispettosa e chiara da parte della Chiesa. Mi si permetta, al riguardo, un rapido ma accorato riferimento allo scenario internazionale. Ossia, alla vicenda che, nelle ultime settimane, ha visto protagonista Amnesty International, a proposito della clamorosa inclusione, tra i diritti umani riconosciuti, della scelta di aborto, magari anche solo nei casi di violenza compiuta sulla donna. Sono derive che ci rendono ulteriormente avvertiti del pericoloso sgretolamento a cui sono sottoposte le consapevolezze umane anche più evidenti, e della necessità quindi di una presenza qualificata a contrastare simili esiti.
Cari Confratelli, l’Italia merita un amore più grande! L’incanto della sua natura, la ricchezza della sua storia, la fecondità delle sue radici cristiane, la fioritura delle sue tradizioni, quella diffusa sensibilità che è nell’animo della sua gente insieme ad una intelligenza creativa, meritano un maggior apprezzamento da parte di tutti e un rinnovato senso di appartenenza e di amore al Paese. Meritano una responsabilità più grande!
Come Pastori, e insieme alle nostre comunità, continueremo ad annunciare Cristo, riscatto e speranza dell’uomo. Lo annunceremo con tutta la fede e la passione di cui siamo capaci; lo annunceremo quali che siano le conseguenze sul piano umano, persuasi che annunciare Cristo è servire l’uomo e che il Vangelo è sempre fonte di umanità vera per tutti.
Affidiamo noi stessi, le nostre Chiese, il nostro amato Paese alla Vergine Maria, da ogni parte invocata dal nostro popolo con le espressioni più belle della filiale devozione.
Angelo Bagnasco
Presidente
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