6 mesi fa
domenica 30 marzo 2008
LE DUE VISITE DI GIOVANNI PAOLO II ALL'ONU: I DISCORSI
VIAGGIO APOSTOLICO DEL PAPA NEGLI USA (15-21 APRILE 2008): LO SPECIALE DEL BLOG
VISITA DELL'OTTOBRE 1995
VIAGGIO APOSTOLICO NEGLI STATI UNITI
MESSAGGIO DI GIOVANNI PAOLO II ALL'ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE PER LA CELEBRAZIONE DEL 50° DI FONDAZIONE
Palazzo delle Nazioni Unite di New York - Giovedì, 5 ottobre 1995
Signor Presidente,
Gentili Signore, Illustri Signori!
1. E' un onore per me prendere la parola in questa Assise dei popoli, per celebrare con gli uomini e le donne di ogni Paese, razza, lingua, cultura i cinquant'anni dell'istituzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Sono pienamente cosciente che, indirizzandomi a questa distinta Assemblea, ho l'opportunità di rivolgermi, in un certo senso, all'intera famiglia dei popoli che vivono sulla terra. La mia parola, che vuol essere segno della stima e dell'interesse della Sede Apostolica e della Chiesa Cattolica per questa Istituzione, s'unisce volentieri alla voce di quanti vedono nell'ONU la speranza di un futuro migliore per la società degli uomini.
Rivolgo un vivo ringraziamento, in primo luogo, al Segretario Generale, Dr. Boutros Boutros-Ghali, per aver caldamente incoraggiato questa mia visita. Sono poi grato a Lei, Signor Presidente, per il cordiale benvenuto con cui mi ha accolto in questo altissimo Consesso. Saluto infine tutti voi, membri di questa Assemblea Generale: vi sono riconoscente per la vostra presenza e per il vostro gentile ascolto.
Sono oggi venuto tra voi col desiderio di offrire il mio contributo a quella significativa meditazione sulla storia e sul ruolo di questa Organizzazione, che non può non accompagnare e sostanziare la celebrazione dell'anniversario.
La Santa Sede, in forza della missione specificamente spirituale che la rende sollecita del bene integrale di ogni essere umano, è stata sin dagli inizi una convinta sostenitrice degli ideali e degli scopi dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. La finalità rispettiva e l'approccio operativo ovviamente sono diversi, ma la comune preoccupazione per l'umana famiglia apre costantemente davanti alla Chiesa ed all'ONU vaste aree di collaborazione. E' questa consapevolezza che orienta ed anima la mia odierna riflessione: essa non si soffermerà su specifiche questioni sociali, politiche od economiche, ma piuttosto sulle conseguenze che gli straordinari cambiamenti intervenuti negli anni recenti hanno per il presente ed il futuro dell'intera umanità.
Un comune patrimonio dell'umanità
2. Signore e Signori! Alle soglie di un nuovo millennio siamo testimoni di una straordinaria e globale accelerazione di quella ricerca di libertà che è una delle grandi dinamiche della storia dell'uomo. Questo fenomeno non è limitato ad una singola parte del mondo, né è l'espressione di una sola cultura. Al contrario, in ogni angolo della terra uomini e donne, pur minacciati dalla violenza, hanno affrontato il rischio della libertà, chiedendo che fosse loro riconosciuto uno spazio nella vita sociale, politica ed economica a misura della loro dignità di persone libere. Questa universale ricerca di libertà è davvero una delle caratteristiche che contraddistinguono il nostro tempo.
Nella mia precedente visita alle Nazioni Unite, il 2 ottobre 1979, ebbi modo di mettere in rilievo come la ricerca della libertà nel nostro tempo abbia il suo fondamento in quei diritti universali di cui l'uomo gode per il semplice fatto di essere tale. Fu proprio la barbarie registrata nei confronti della dignità umana che portò l'Organizzazione delle Nazioni Unite a formulare, appena tre anni dopo la sua costituzione, quella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che resta una delle più alte espressioni della coscienza umana nel nostro tempo. In Asia ed in Africa, in America, in Oceania ed in Europa, è a questa Dichiarazione che uomini e donne convinti e coraggiosi si sono richiamati per dare forza alle rivendicazioni di una più intensa partecipazione alla vita della società.
3. E' importante per noi comprendere ciò che potremmo chiamare la struttura interiore di tale movimento mondiale. Proprio questo suo carattere planetario ce ne offre una prima e fondamentale "cifra", confermando come vi siano realmente dei diritti umani universali, radicati nella natura della persona, nei quali si rispecchiano le esigenze obiettive e imprescindibili di una legge morale universale. Ben lungi dall'essere affermazioni astratte, questi diritti ci dicono anzi qualcosa di importante riguardo alla vita concreta di ogni uomo e di ogni gruppo sociale. Ci ricordano anche che non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso, ma che, al contrario vi è una logica morale che illumina l'esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli. Se vogliamo che un secolo di costrizione lasci spazio a un secolo di persuasione, dobbiamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, circa il futuro dell'uomo. La legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella sorta di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro.
Sotto tale profilo, è motivo di seria preoccupazione il fatto che oggi alcuni neghino l'universalità dei diritti umani, così come negano che vi sia una natura umana condivisa da tutti. Certo, non vi è un unico modello di organizzazione politica ed economica della libertà umana, poiché culture differenti ed esperienze storiche diverse danno origine, in una società libera e responsabile, a differenti forme istituzionali. Ma una cosa è affermare un legittimo pluralismo di "forme di libertà", ed altra cosa è negare qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo o all'esperienza umana. Questa seconda prospettiva rende estremamente difficile, se non addirittura impossibile, una politica internazionale di persuasione.
Assumersi il rischio della libertà
4. Le dinamiche morali dell'universale ricerca della libertà sono apparse chiaramente nell'Europa centrale ed orientale con le rivoluzioni non violente del 1989. Quegli storici eventi, sviluppatisi in tempi e luoghi determinati, hanno però offerto una lezione che va ben oltre i confini di una specifica area geografica: le rivoluzioni non violente del 1989 hanno dimostrato che la ricerca della libertà è un'esigenza insopprimibile, che scaturisce dal riconoscimento dell'inestimabile dignità e valore della persona umana, e non può non accompagnarsi all'impegno in suo favore. Il totalitarismo moderno è stato, prima di ogni altra cosa, un assalto alla dignità della persona, un assalto che è giunto persino alla negazione del valore inviolabile della sua vita. Le rivoluzioni del 1989 sono state rese possibili dall'impegno di uomini e donne coraggiosi, che s'ispiravano ad una visione diversa e, in ultima analisi, più profonda e vigorosa: la visione dell'uomo come persona intelligente e libera, depositaria di un mistero che la trascende, dotata della capacità di riflettere e di scegliere - e dunque capace di sapienza e di virtù. Decisiva, per la riuscita di quelle rivoluzioni non violente, fu l'esperienza della solidarietà sociale: di fronte a regimi sostenuti dalla forza della propaganda e del terrore, quella solidarietà costituì il nucleo morale del "potere dei non potenti", fu una primizia di speranza e resta un monito circa la possibilità che l'uomo ha di seguire, nel suo cammino lungo la storia, la via delle più nobili aspirazioni dello spirito umano.
Guardando oggi a quegli eventi da questo privilegiato osservatorio mondiale, è impossibile non cogliere la coincidenza tra i valori che hanno ispirato quei movimenti popolari di liberazione e molti degli impegni morali scritti nella Carta delle Nazioni Unite: penso ad esempio all'impegno di "riaffermare la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e valore della persona umana"; come pure all'impegno di "promuovere il progresso sociale e migliori condizioni di vita in una libertà più ampia" (preamb.). I cinquantuno Stati che hanno fondato questa Organizzazione nel 1945 hanno veramente acceso una fiaccola, la cui luce può disperdere le tenebre causate dalla tirannia - una luce che può indicare la via della libertà, della pace e della solidarietà.
I diritti delle Nazioni
5. La ricerca della libertà nella seconda metà del ventesimo secolo ha impegnato non soltanto gli individui ma anche le nazioni. A cinquant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale è importante ricordare che quel conflitto venne combattuto a causa di violazioni dei diritti delle nazioni. Molte di esse hanno tremendamente sofferto per la sola ragione di essere considerate "altre". Crimini terribili furono commessi in nome di dottrine infauste, che predicavano l'"inferiorità" di alcune nazioni e culture. In un certo senso, si può dire che l'Organizzazione delle Nazioni Unite nacque dalla convinzione che simili dottrine erano incompatibili con la pace; e l'impegno della Carta di "salvare le future generazioni dal flagello della guerra" (preamb.) implicava sicuramente l'impegno morale di difendere ogni nazione e cultura da aggressioni ingiuste e violente.
Purtroppo, anche dopo la fine della seconda guerra mondiale i diritti delle nazioni hanno continuato ad essere violati. Per fare solo alcuni esempi, gli Stati Baltici ed ampi territori dell'Ucraina e della Bielorussia vennero assorbiti dall'Unione Sovietica, come era già accaduto all'Armenia, all'Azerbajdzan ed alla Georgia nel Caucaso. Contemporaneamente, le cosiddette "democrazie popolari" dell'Europa centrale ed orientale persero di fatto la loro sovranità e venne loro richiesto di sottomettersi alla volontà che dominava l'intero blocco. Il risultato di questa divisione artificiale dell'Europa fu la "guerra fredda", una situazione cioè di tensione internazionale in cui la minaccia dell'olocausto nucleare rimaneva sospesa sulla testa dell'umanità. Solo quando la libertà per le nazioni dell'Europa centrale ed orientale venne ristabilita, la promessa di pace, che avrebbe dovuto arrivare con la fine della guerra, cominciò a prendere forma reale per molte delle vittime di quel conflitto.
6. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, adottata nel 1948, ha trattato in maniera eloquente dei diritti delle persone; ma non vi è ancora un analogo accordo internazionale che affronti in modo adeguato i diritti delle nazioni. Si tratta di una situazione che deve essere attentamente considerata, per le urgenti questioni che solleva circa la giustizia e la libertà nel mondo contemporaneo.
In realtà il problema del pieno riconoscimento dei diritti dei popoli e delle nazioni si è presentato ripetutamente alla coscienza dell'umanità, suscitando anche una notevole riflessione etico-giuridica. Penso al dibattito svolto durante il Concilio di Costanza nel XV secolo, quando i rappresentanti dell'Accademia di Cracovia, capeggiati da Pawel Wlodkowic, difesero coraggiosamente il diritto all'esistenza ed all'autonomia di certe popolazioni europee. Anche più nota è la riflessione avviata, in quella medesima epoca, dall'Università di Salamanca nei confronti dei popoli del nuovo mondo. Nel nostro secolo, poi, come non ricordare la parola profetica del mio predecessore Benedetto XV, che nel corso della prima guerra mondiale ricordava a tutti che "le nazioni non muoiono", e invitava "a ponderare con serena coscienza i diritti e le giuste aspirazioni dei popoli" (Ai popoli ora belligeranti ed ai loro capi, 28 luglio 1915)?
7. Oggi, il problema delle nazionalità si colloca in un nuovo orizzonte mondiale, caratterizzato da una forte "mobilità", che rende gli stessi confini etnico-culturali dei vari popoli sempre meno marcati, sotto la spinta di molteplici dinamismi come le migrazioni, i mass media, e la mondializzazione dell'economia. Eppure, proprio in questo orizzonte di universalità vediamo riemergere con forza l'istanza dei particolarismi etnico-culturali, quasi come un bisogno prorompente di identità e di sopravvivenza, una sorta di contrappeso alle tendenze omologanti. E' un dato che non va sottovalutato, quasi fosse semplice residuo del passato; esso chiede piuttosto di essere decifrato, per una riflessione approfondita sul piano antropologico ed etico-giuridico.
Questa tensione tra particolare ed universale, infatti, si può considerare immanente all'essere umano. In forza della comunanza di natura, gli uomini sono spinti a sentirsi, quali sono, membri di un'unica grande famiglia. Ma per la concreta storicità di questa stessa natura, essi sono necessariamente legati in modo più intenso a particolari gruppi umani; innanzitutto la famiglia, poi i vari gruppi di appartenenza, fino all'insieme del rispettivo gruppo etnico-culturale, che non a caso, indicato col termine "nazione", evoca il "nascere", mentre, additato col termine "patria" ("fatherland"), richiama la realtà della stessa famiglia. La condizione umana è posta così tra questi due poli - l'universalità e la particolarità - in tensione vitale tra loro; una tensione inevitabile, ma singolarmente feconda, se vissuta con sereno equilibrio.
8. E' su questo fondamento antropologico che poggiano anche i "diritti delle nazioni", che altro non sono se non i "diritti umani" colti a questo specifico livello della vita comunitaria. Una riflessione su questi diritti è certo non facile, tenuto conto della difficoltà di definire il concetto stesso di "nazione", che non si identifica a priori e necessariamente con lo Stato. E' tuttavia una riflessione improrogabile, se si vogliono evitare gli errori del passato, e provvedere a un giusto ordine mondiale.
Presupposto degli altri diritti di una nazione è certamente il suo diritto all'esistenza: nessuno, dunque - né uno Stato, né un'altra nazione, né un'organizzazione internazionale - è mai legittimato a ritenere che una singola nazione non sia degna di esistere. Questo fondamentale diritto all'esistenza non necessariamente esige una sovranità statuale, essendo possibili diverse forme di aggregazione giuridica tra differenti nazioni, come ad esempio capita negli Stati federali, nelle Confederazioni, o in Stati caratterizzati da larghe autonomie regionali. Possono esserci circostanze storiche in cui aggregazioni diverse dalla singola sovranità statuale possono risultare persino consigliabili, ma a patto che ciò avvenga in un clima di vera libertà, garantita dall'esercizio dell'autodeterminazione dei popoli. Il diritto all'esistenza implica naturalmente, per ogni nazione, anche il diritto alla propria lingua e cultura, mediante le quali un popolo esprime e promuove quella che direi la sua originaria "sovranità" spirituale. La storia dimostra che in circostanze estreme (come quelle che si sono viste nella terra in cui sono nato), è proprio la sua stessa cultura che permette ad una nazione di sopravvivere alla perdita della propria indipendenza politica ed economica. Ogni nazione ha conseguentemente anche diritto di modellare la propria vita secondo le proprie tradizioni, escludendo, naturalmente, ogni violazione dei diritti umani fondamentali e, in particolare, l'oppressione delle minoranze. Ogni nazione ha il diritto di costruire il proprio futuro provvedendo alle generazioni più giovani un'appropriata educazione.
Ma se i "diritti della nazione" esprimono le vitali esigenze della "particolarità", non è meno importante sottolineare le esigenze dell'universalità, espresse attraverso una forte coscienza dei doveri che le nazioni hanno nei confronti delle altre e dell'intera umanità. Primo fra tutti è certamente il dovere di vivere in atteggiamento di pace, di rispetto e di solidarietà con le altre nazioni. In tal modo l'esercizio dei diritti delle nazioni, bilanciato dall'affermazione e dalla pratica dei doveri, promuove un fecondo "scambio di doni", che rafforza l'unità tra tutti gli uomini.
Il rispetto delle differenze
9. Nei trascorsi diciassette anni, durante i miei pellegrinaggi pastorali tra le comunità della Chiesa cattolica, ho potuto entrare in dialogo con la ricca diversità di nazioni e di culture d'ogni parte del mondo. Purtroppo, il mondo deve ancora imparare a convivere con la diversità, come i recenti eventi nei Balcani e nell'Africa centrale ci hanno dolorosamente ricordato. La realtà della "differenza" e la peculiarità dell'"altro" possono talvolta essere sentite come un peso, o addirittura come una minaccia. Amplificata da risentimenti di carattere storico ed esacerbata dalle manipolazioni di personaggi senza scrupoli, la paura della "differenza" può condurre alla negazione dell'umanità stessa dell'"altro", con il risultato che le persone entrano in una spirale di violenza dalla quale nessuno - nemmeno i bambini - viene risparmiato. Situazioni di questo genere sono oggi a noi ben note, ed il mio cuore e le mie preghiere si rivolgono in questo istante in modo speciale alle sofferenze delle martoriate popolazioni della Bosnia Erzegovina.
Per amara esperienza, pertanto, noi sappiamo che la paura della "differenza", specialmente quando si esprime mediante un angusto ed escludente nazionalismo che nega qualsiasi diritto all'"altro", può condurre ad un vero incubo di violenza e di terrore. E tuttavia, se ci sforziamo di valutare le cose con obiettività, noi siamo in grado di vedere che, al di là di tutte le differenze che contraddistinguono gli individui e i popoli, c'è una fondamentale comunanza, dato che le varie culture non sono in realtà che modi diversi di affrontare la questione del significato dell'esistenza personale. E proprio qui possiamo identificare una fonte del rispetto che è dovuto ad ogni cultura e ad ogni nazione: qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell'uomo: è un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri: il mistero di Dio.
10. Pertanto, il nostro rispetto per la cultura degli altri è radicato nel nostro rispetto per il tentativo che ogni comunità compie per dare risposta al problema della vita umana. In tale contesto ci è possibile constatare quanto importante sia preservare il diritto fondamentale alla libertà di religione e alla libertà di coscienza, quali pilastri essenziali della struttura dei diritti umani e fondamento di ogni società realmente libera. A nessuno è permesso di soffocare tali diritti usando il potere coercitivo per imporre una risposta al mistero dell'uomo.
Estraniarsi dalla realtà della diversità - o, peggio, tentare di estinguere quella diversità - significa precludersi la possibilità di sondare le profondità del mistero della vita umana. La verità sull'uomo è l'immutabile criterio con cui tutte le culture vengono giudicate; ma ogni cultura ha qualcosa da insegnare circa l'una dimensione o l'altra di quella complessa verità. Pertanto la "differenza", che alcuni trovano così minacciosa, può divenire, mediante un dialogo rispettoso, la fonte di una più profonda comprensione del mistero dell'esistenza umana.
11. In tale contesto occorre chiarire il divario essenziale tra una insana forma di nazionalismo, che predica il disprezzo per le altre nazioni o culture, ed il patriottismo, che è invece il giusto amore per il proprio paese d'origine. Un vero patriottismo non cerca mai di promuovere il bene della propria nazione a discapito di altre. Ciò infatti finirebbe per recare danno anche alla propria nazione, producendo effetti deleteri sia per l'aggressore che per la vittima. Il nazionalismo, specie nelle sue espressioni più radicali, è pertanto in antitesi col vero patriottismo, ed oggi dobbiamo adoperarci per far sì che il nazionalismo esasperato non continui a riproporre in forme nuove le aberrazioni del totalitarismo. E' impegno che vale, ovviamente, anche quando si assumesse, quale fondamento del nazionalismo, lo stesso principio religioso, come purtroppo avviene in certe manifestazioni del cosiddetto "fondamentalismo".
Libertà e verità morale
12. Signore e Signori! La libertà è la misura della dignità e della grandezza dell'uomo. Vivere la libertà che individui e popoli ricercano, è una grande sfida per la crescita spirituale dell'uomo e per la vitalità morale delle nazioni. La questione fondamentale, che tutti oggi dobbiamo affrontare, è quella dell'uso responsabile della libertà, sia nella sua dimensione personale che in quella sociale. Occorre dunque che la nostra riflessione si porti sulla questione della struttura morale della libertà, che è l'architettura interiore della cultura della libertà.
La libertà non è semplicemente assenza di tirannia o di oppressione, né è licenza di fare tutto ciò che si vuole. La libertà possiede una "logica" interna che la qualifica e la nobilita: essa è ordinata alla verità e si realizza nella ricerca e nell'attuazione della verità. Staccata dalla verità della persona umana, essa scade, nella vita individuale, in licenza e, nella vita politica, nell'arbitrio dei più forti e in arroganza del potere. Perciò, lungi dall'essere una limitazione o una minaccia alla libertà, il riferimento alla verità sull'uomo, - verità universalmente conoscibile attraverso la legge morale inscritta nel cuore di ciascuno - è, in realtà, la garanzia del futuro della libertà.
13. In questa luce si capisce come l'utilitarismo, dottrina che definisce la moralità non in base a ciò che è buono ma in base a ciò che reca vantaggio, sia una minaccia alla libertà degli individui e delle nazioni, ed impedisca la costruzione di una vera cultura della libertà. Esso ha risvolti politici spesso devastanti, perché ispira un nazionalismo aggressivo, in base al quale il soggiogare, ad esempio, una nazione più piccola o più debole è contrabbandato come un bene solo perché risponde agli interessi nazionali. Non meno gravi sono gli esiti dell'utilitarismo economico, che spinge i paesi più forti a condizionare e a sfruttare i più deboli.
Sovente queste due forme di utilitarismo vanno di pari passo, ed è un fenomeno che ha largamente caratterizzato le relazioni tra il "Nord" e il "Sud" del mondo. Per le nazioni in via di sviluppo il raggiungimento dell'indipendenza politica è stato troppo spesso accompagnato da una situazione pratica di dipendenza economica da altri Paesi. Si deve sottolineare che, in alcuni casi, le aree in via di sviluppo hanno sofferto addirittura un regresso tale che alcuni Stati mancano dei mezzi per sopperire ai bisogni essenziali dei loro popoli. Simili situazioni offendono la coscienza dell'umanità e pongono una formidabile sfida morale all'umana famiglia. Affrontare questa sfida ovviamente richiede dei cambiamenti sia nelle nazioni in via di sviluppo che in quelle economicamente più progredite. Se le prime sapranno offrire sicure garanzie di corretta gestione delle risorse e degli aiuti, nonché di rispetto dei diritti umani, sostituendo dove occorra, forme di governo ingiuste, corrotte o autoritarie con altre di tipo partecipativo e democratico, non è forse vero che libereranno in questo modo le energie civili ed economiche migliori della propria gente? E i paesi già sviluppati, da parte loro, non dovranno forse maturare, in questa prospettiva, atteggiamenti sottratti a logiche puramente utilitaristiche e improntati a sentimenti di maggiore giustizia e solidarietà?
Sì, illustri Signore e Signori! E' necessario che sulla scena economica internazionale si imponga un'etica della solidarietà, se si vuole che la partecipazione, la crescita economica, ed una giusta distribuzione dei beni possano caratterizzare il futuro dell'umanità. La cooperazione internazionale, invocata dalla Carta delle Nazioni Unite "per risolvere problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale o umanitario" (art. 1,3), non può essere pensata esclusivamente in termini di aiuto e di assistenza, o addirittura mirando ai vantaggi di ritorno per le risorse messe a disposizione. Quando milioni di persone soffrono la povertà -che significa fame, malnutrizione, malattia, analfabetismo e degrado- dobbiamo non solo ricordare a noi stessi che nessuno ha il diritto di sfruttare l'altro per il proprio tornaconto, ma anche e soprattutto riaffermare il nostro impegno a quella solidarietà che consente ad altri di vivere, nelle concrete circostanze economiche e politiche, quella creatività che è una caratteristica distintiva della persona umana e che rende possibile la ricchezza delle nazioni.
Le Nazioni Unite e il futuro della libertà
14. Di fronte a queste enormi sfide, come non riconoscere il ruolo che spetta all'Organizzazione delle Nazioni Unite? A cinquant'anni dalla sua istituzione, se ne vede ancor più la necessità, ma si vede anche meglio, in base all'esperienza compiuta, che l'efficacia di questo massimo strumento di sintesi e coordinamento della vita internazionale dipende dalla cultura e dall'etica internazionale che esso sottende ed esprime. Occorre che l'Organizzazione delle Nazioni Unite si elevi sempre più dallo stadio freddo di istituzione di tipo amministrativo a quello di centro morale, in cui tutte le nazioni del mondo si sentano a casa loro, sviluppando la comune coscienza di essere, per così dire, una "famiglia di nazioni". Il concetto di "famiglia" evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, sul rispetto sincero. In un'autentica famiglia non c'è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti.
Sono questi, trasposti al livello della "famiglia delle nazioni", i sentimenti che devono intessere, prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli. L'ONU ha il compito storico, forse epocale, di favorire questo salto di qualità della vita internazionale, non solo fungendo da centro di efficace mediazione per la soluzione dei conflitti, ma anche promuovendo quei valori, quegli atteggiamenti e quelle concrete iniziative di solidarietà che si rivelano capaci di elevare i rapporti tra le nazioni dal livello "organizzativo" a quello, per così dire, "organico", dalla semplice "esistenza con" alla "esistenza per" gli altri, in un fecondo scambio di doni, vantaggioso innanzitutto per le nazioni più deboli, ma in definitiva foriero di benessere per tutti.
15. Solo a questa condizione si avrà il superamento non soltanto delle "guerre guerreggiate", ma anche delle "guerre fredde"; non solo l'eguaglianza di diritto tra tutti i popoli, ma anche la loro attiva partecipazione alla costruzione di un futuro migliore; non solo il rispetto delle singole identità culturali, ma la loro piena valorizzazione, come ricchezza comune del patrimonio culturale dell'umanità. Non è forse questo l'ideale additato dalla Carta delle Nazioni Unite, quando pone a fondamento dell'Organizzazione "il principio della sovrana eguaglianza di tutti i suoi Membri" (art. 2, 1), o quando la impegna a "sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli, fondate sul rispetto del principio dell'eguaglianza dei diritti e dell'autodeterminazione" (art. 1, 2)? E' questa la strada maestra che chiede di essere percorsa fino in fondo, anche con opportune modifiche, se necessario, del modello operativo delle Nazioni Unite, per tener conto di quanto è avvenuto in questo mezzo secolo, con l'affacciarsi di tanti nuovi popoli all'esperienza della libertà nella legittima aspirazione ad "essere" e "contare" di più.
Non sembri, tutto questo, un'utopia irrealizzabile. E' l'ora di una nuova speranza, che ci chiede di togliere l'ipoteca paralizzante del cinismo dal futuro della politica e della vita degli uomini. Ci invita a questo proprio l'anniversario che stiamo celebrando, riconsegnandoci, con l'idea delle "nazioni unite", un'idea che parla eloquentemente di mutua fiducia, di sicurezza e di solidarietà. Ispirati dall'esempio di quanti si sono assunti il rischio della libertà, potremmo noi non accogliere anche il rischio della solidarietà, e pertanto il rischio della pace?
Oltre la paura: la civiltà dell'amore
16. Uno dei maggiori paradossi del nostro tempo è che l'uomo, il quale ha iniziato il periodo che chiamiamo della "modernità" con una fiduciosa asserzione della propria "maturità" ed "autonomia", si avvicina alla fine del secolo ventesimo timoroso di se stesso, impaurito da ciò che egli stesso è in grado di fare, impaurito dal futuro. In realtà, la seconda metà del secolo ventesimo ha visto il fenomeno senza precedenti di un'umanità incerta riguardo alla possibilità stessa di un futuro, data la minaccia della guerra nucleare. Quel pericolo, grazie a Dio, sembra essersi allontanato, - ed occorre rimuovere con fermezza, a livello universale, quanto lo può riavvicinare, se non riattivare - ma rimane tuttavia la paura per il futuro e del futuro.
Perché il millennio ormai alle porte possa essere testimone di una nuova fioritura dello spirito umano, favorita da un'autentica cultura della libertà, l'umanità deve apprendere a vincere la paura. Dobbiamo imparare a non avere paura, riconquistando uno spirito di speranza e di fiducia. La speranza non è fatuo ottimismo, dettato dall'ingenua fiducia che il futuro sia necessariamente migliore del passato. Speranza e fiducia sono la premessa di una responsabile operosità e trovano alimento nell'intimo santuario della coscienza, là dove "l'uomo si trova solo con Dio" (Cost. past. Gaudium et spes, 16), e per ciò stesso intuisce di non essere solo tra gli enigmi dell'esistenza, perché accompagnato dall'amore del Creatore!
Speranza e fiducia potrebbero sembrare argomenti che vanno oltre gli scopi delle Nazioni Unite. In realtà non è così, poiché le azioni politiche delle nazioni, argomento principale delle preoccupazioni della vostra Organizzazione, chiamano sempre in causa anche la dimensione trascendente e spirituale dell'esperienza umana, e non potrebbero ignorarla senza recar danno alla causa dell'uomo e della libertà umana. Tutto ciò che sminuisce l'uomo reca danno alla causa della libertà. Per ricuperare la nostra speranza e la nostra fiducia al termine di questo secolo di sofferenze, dobbiamo riguadagnare la visione di quell'orizzonte trascendente di possibilità al quale tende lo spirito umano.
17. Come cristiano, poi, non posso non testimoniare che la mia speranza e la mia fiducia si fondano su Gesù Cristo, i cui duemila anni dalla nascita saranno celebrati all'alba del nuovo millennio. Noi cristiani crediamo che, nella sua Morte e Risurrezione, sono stati pienamente rivelati l'amore di Dio e la sua sollecitudine per tutta la creazione. Gesù Cristo è per noi Dio fatto uomo, calato nella storia dell'umanità. Proprio per questo la speranza cristiana nei confronti del mondo e del suo futuro si estende ad ogni persona umana: nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore dei cristiani. La fede in Cristo non ci spinge all'intolleranza, al contrario ci obbliga a intrattenere con gli altri uomini un dialogo rispettoso. L'amore per Cristo non ci sottrae all'interesse per gli altri, ma piuttosto ci invita a preoccuparci di loro, senza escludere nessuno, e privilegiando semmai i più deboli e sofferenti. Pertanto, mentre ci avviciniamo al bimillenario della nascita di Cristo, la Chiesa altro non domanda che di poter proporre rispettosamente questo messaggio della salvezza, e di poter promuovere in spirito di carità e di servizio, la solidarietà dell'intera famiglia umana.
Signore e Signori! Sono di fronte a voi, come il mio predecessore Papa Paolo VI esattamente trent'anni fa, non come uno che ha potere temporale - sono sue parole - né come un leader religioso che invoca speciali privilegi per la sua comunità. Sono qui davanti a voi come un testimone: un testimone della dignità dell'uomo, un testimone di speranza, un testimone della convinzione che il destino di ogni nazione riposa nelle mani di una misericordiosa Provvidenza.
18. Dobbiamo vincere la nostra paura del futuro. Ma non potremo vincerla del tutto, se non insieme. La "risposta" a quella paura non è la coercizione, né la repressione o l'imposizione di un unico "modello" sociale al mondo intero. La risposta alla paura che offusca l'esistenza umana al termine del secolo ventesimo è lo sforzo comune per costruire la civiltà dell'amore, fondata sui valori universali della pace, della solidarietà, della giustizia e della libertà. E l'"anima" della civiltà dell'amore è la cultura della libertà: la libertà degli individui e delle nazioni, vissuta in una solidarietà e responsabilità oblative.
Non dobbiamo avere timore del futuro. Non dobbiamo avere paura dell'uomo. Non è un caso che noi ci troviamo qui. Ogni singola persona è stata creata ad "immagine e somiglianza" di Colui che è l'origine di tutto ciò che esiste. Abbiamo in noi la capacità di sapienza e di virtù. Con tali doni, e con l'aiuto della grazia di Dio, possiamo costruire nel secolo che sta per giungere e per il prossimo millennio una civiltà degna della persona umana, una vera cultura della libertà. Possiamo e dobbiamo farlo! E, facendolo, potremo renderci conto che le lacrime di questo secolo hanno preparato il terreno ad una nuova primavera dello spirito umano.
© Copyright 1995 - Libreria Editrice Vaticana
Incontro con i bambini nel Palazzo di Vetro a New York (USA, 5 ottobre 1995)
Incontro con il Personale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite nella Sala dell'Assemblea Generale dell'ONU a New York (USA, 5 ottobre 1995)
Benedizione degli Uffici della Missione dell'Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a New York (USA, 7 ottobre 1995)
VISITA DELL'OTTOBRE 1979
VISITA PASTORALE NEGLI STATI UNITI D'AMERICA
DISCORSO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II ALL'ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE
New York, 2 ottobre 1979
Signor Presidente,
1. Desidero esprimere la mia gratitudine all’illustre Assemblea generale delle Nazioni Unite, alla quale mi è consentito oggi partecipare e rivolgere la parola. La mia riconoscenza va in primo luogo al Signor Segretario Generale dell’ONU, il Dott. Kurt Waldheim, il quale già nell’autunno scorso – poco dopo la mia elezione alla cattedra di San Pietro – mi rivolse l’invito per questa mia visita, e, in seguito, lo rinnovò nello scorso maggio durante il nostro incontro a Roma. Sin dall’inizio, ne fui molto onorato e profondamente obbligato. Ed oggi, dinanzi ad una così eletta Assemblea, desidero ringraziare Lei, Signor Presidente, che così gentilmente mi ha accolto e dato la parola.
2. Il motivo formale del mio intervento odierno è indubbiamente il particolare legame di cooperazione che unisce la Sede Apostolica all’Organizzazione delle Nazioni Unite, come attesta la presenza stessa della Missione permanente di un Osservatore della Santa Sede presso questa Organizzazione. Tale legame, che la Santa Sede tiene in grande considerazione, trova la ragione d’essere nella sovranità di cui la Sede Apostolica è, da lungo volgere di secoli, rivestita, sovranità che per l’ambito territoriale è circoscritta al piccolo Stato della Città del Vaticano, ma che è motivata dalla esigenza che ha il Papato di esercitare con piena libertà la sua missione, e, per ogni suo possibile interlocutore, Governo o Organismo internazionale, dì trattare con esso indipendentemente da altre Sovranità. Naturalmente, la natura e i fini della missione spirituale propria della Sede Apostolica e della Chiesa fanno sì che la loro partecipazione ai compiti e alle attività dell’ONU si differenzi profondamente da quella degli Stati in quanto Comunità in senso politico-temporale.
3. La Sede Apostolica non soltanto tiene in grande conto la propria collaborazione con l’ONU, ma fin dalla nascita dell’Organizzazione la sempre espresso la propria stima e il proprio consenso per lo storico significato di questo supremo foro della vita internazionale dell’umanità contemporanea. Essa non cessa anche di appoggiare le sue funzioni ed iniziative, che hanno quale scopo la pacifica convivenza e la collaborazione fra le Nazioni. Ne abbiamo molte prove. Negli oltre 30 anni di esistenza dell’ONU, messaggi ed Encicliche pontificie, documenti dell’Episcopato cattolico, ed anche il Concilio Vaticano II le hanno prestato grande attenzione. I Pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI guardavano con fiducia a questa importante istituzione, come a un eloquente e promettente segno dei nostri tempi. Ed anche colui che ora vi parla, fin dai primi mesi del proprio pontificato, ha espresso più volte la stessa fiducia e convinzione che nutrivano i suoi Predecessori.
4. Questa fiducia e convinzione della Sede Apostolica, come dicevo, non risultano da ragioni puramente politiche, ma dalla stessa natura religioso-morale della missione della Chiesa Cattolica Romana. Questa, quale comunità universale che raccoglie in sé fedeli appartenenti a quasi tutti i paesi e continenti, nazioni, popoli, razze, lingue e culture, è interessata all’esistenza ed all’attività dell’Organizzazione, la quale – come deduciamo dal suo nome – unisce e associa Nazioni e Stati. Unisce e associa, e non già divide e contrappone: essa cerca le vie dell’intesa e della pacifica collaborazione, tendendo con i mezzi disponibili i metodi possibili ad escludere la guerra, la divisione, la reciproca distruzione in quella grande famiglia, che è l’umanità contemporanea.
5. Questo è il motivo vero, il motivo sostanziate della mia presenza tra Voi, e desidero esprimere gratitudine a così illustre Assemblea, perché ha preso in considerazione tale motivo, che può rendere, in qualche modo, utile la mia presenza tra Voi. Ha certamente un rilevante significato che tra i rappresentanti degli Stati, la cui ragion d’essere è la sovranità dei poteri legati al territorio e alla popolazione, si trovi oggi anche il rappresentante della Sede Apostolica e della Chiesa Cattolica. Questa Chiesa è quella di Gesù Cristo che, davanti al tribunale del giudice romano Pilato, dichiarò di essere re, ma di un regno che non è di questo mondo (cf. Gv 18,36-37). Interrogato poi sulla ragion d’essere del suo regno tra gli uomini, egli spiegò: “ Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Trovandomi quindi dinanzi ai rappresentanti degli Stati, desidero non soltanto ringraziare, ma congratularmi in modo particolare, perché l’invito a dare la voce al Papa nella Vostra Assemblea comprova che l’Organizzazione delle Nazioni Unite accetta e rispetta la dimensione religioso-morale di quei problemi umani, dei quali la Chiesa, per il messaggio di verità e di amore che deve portare al mondo, si occupa. Certamente, per le questioni che sono oggetto delle vostre funzioni e delle vostre sollecitudini – attestate dal vastissimo e organico complesso di istituzioni e di attività che fanno capo all’ONU o con essa collaborano, particolarmente nei settori della cultura, della sanità, dell’alimentazione, del lavoro, nell’uso pacifico dell’energia nucleare – è essenziale che ci incontriamo in nome dell’uomo inteso nella sua integrità, in tutta la pienezza e multiforme ricchezza della sua esistenza, spirituale e materiale, come ho espresso nell’Enciclica Redemptor Hominis, la prima del mio pontificato.
6. In questo momento, profittando della solenne occasione di un incontro con i Rappresentanti delle Nazioni del globo, vorrei rivolgere un saluto soprattutto a tutti gli uomini e le donne viventi sulla nostra terra. Ad ogni uomo, ad ogni donna, senza eccezione alcuna. Ogni essere umano, infatti, che abita il nostro pianeta, è membro di una società civile, di una Nazione, numerose delle quali sono qui rappresentate. Ognuno di Voi, Illustrissimi Signore e Signori, è rappresentante di singoli Stati: sistemi e strutture politiche, ma soprattutto di determinate unità umane; Voi tutti siete i rappresentanti degli uomini, praticamente di quasi tutti gli uomini del globo: uomini concreti, comunità e popoli, che vivono l’odierna fase della loro storia, ed insieme sono inseriti nella storia di tutta l’umanità, con la loro soggettività e dignità di persona umana, con una propria cultura, con esperienze e aspirazioni, tensioni e sofferenze proprie, e con legittime aspettative. In questo rapporto trova il suo perché tutta l’attività politica, nazionale e internazionale, la quale – in ultima analisi – viene “dall’uomo”, si esercita “mediante l’uomo” ed è “per l’uomo”. Se tale attività si distacca da questa fondamentale relazione e finalità, se diventa, in certo modo, fine a se stessa, essa perde gran parte della sua ragion d’essere. Ancor più, può diventare perfino sorgente di una specifica alienazione; può diventare estranea all’uomo; può cadere in contraddizione con l’umanità stessa. In realtà, ragion d’essere di ogni politica è il servizio all’uomo, è l’adesione, piena di sollecitudine e responsabilità, ai problemi ed ai compiti essenziali della sua esistenza terrena, nella sua dimensione e portata sociale, dalla quale contemporaneamente dipende anche il bene di ciascuna persona.
7. Mi scuso di parlare di questioni che a Voi, Illustrissimi Signore e Signori, sono certamente evidenti. Ma non sembra inutile parlarne, perché ciò che insidia più spesso le attività umane è l’eventualità che, nel compierle, si possano perdere di vista le verità più lampanti, i principi più elementari.
Mi sia permesso di augurare che l’Organizzazione delle Nazioni Unite, per il suo carattere universale, non cessi mai di essere quel “forum”, quell’alta tribuna, dalla quale si valutano, nella verità e nella giustizia, tutti i problemi dell’uomo. In nome di questa ispirazione, per questo impulso storico fu firmata il 26 giugno 1945, verso la fine della terribile seconda guerra mondiale, la Carta delle Nazioni Unite e prese vita, il 24 ottobre successivo, la vostra Organizzazione. Poco dopo venne il fondamentale suo documento che fu la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (10 dicembre 1948), dell’uomo come individuo concreto e dell’uomo nel suo valore universale. Questo documento è una pietra miliare posta sul lungo e difficile cammino del genere umano. Bisogna misurare il progresso dell’umanità non solo col progresso della scienza e della tecnica, dal quale risalta tutta la singolarità dell’uomo nei confronti della natura, ma contemporaneamente e ancor più col primato dei valori spirituali e col progresso della vita morale.
Proprio in questo campo si manifesta il pieno dominio della ragione attraverso la verità nei comportamenti della persona e della società, ed anche il dominio sulla natura e trionfa silenziosamente la coscienza umana, secondo l’antico detto: “Genus humanum arte et ratione vivit”. Proprio quando la tecnica, nell’unilaterale suo progresso, veniva diretta a scopi bellici, di egemonie e di conquiste, perché l’uomo uccidesse l’uomo e una nazione distruggesse l’altra privandola della libertà o del diritto di esistere – e ho sempre davanti alla mia mente l’immagine della seconda guerra mondiale, iniziata quarant’anni or sono, il primo settembre 1939, con l’invasione della Polonia, e finita il 9 maggio 1945 – proprio allora è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite. E tre anni dopo nacque il documento, che – come ho detto – è da considerare una vera pietra miliare sulla via del progresso morale dell’umanità: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Governi e Stati del mondo hanno capito che, se non vogliono aggredirsi e distruggersi reciprocamente, debbono unirsi. La via reale, la via fondamentale che conduce a questo, passa attraverso ciascun uomo, attraverso la definizione, il riconoscimento ed il rispetto degli inalienabili diritti delle persone e delle comunità dei popoli.
8. Oggi, a quarant’anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale, vorrei richiamarmi all’insieme delle esperienze degli uomini e delle Nazioni, vissute da una generazione: in buona parte ancora in vita. Non molto tempo fa, ho avuto modo di ritornare a riflettere su alcune di quelle esperienze in uno dei luoghi più dolorosi e più traboccanti di disprezzo per l’uomo e per i suoi fondamentali diritti: il campo di sterminio di Oswiecim (Auschwitz), che ho visitato durante il mio pellegrinaggio in Polonia, nel giugno scorso. Questo luogo tristemente conosciuto, è, purtroppo, soltanto uno dei tanti sparsi sul Continente europeo. Anche il ricordo di uno solo dovrebbe costituire un segnale di avvertimento sulle strade dell’umanità contemporanea per fare sparire una volta per sempre ogni genere di campi di concentramento in ogni luogo della terra. E dovrebbe sparire per sempre, dalla vita delle Nazioni e degli Stati, tutto ciò che si richiama a quelle orribili esperienze, ciò che – sotto forme anche diverse, cioè di ogni genere di tortura e di oppressione, sia fisica sia morale, esercitata con qualsiasi sistema, in qualunque terra – è la loro continuazione, fenomeno ancor più doloroso che si effettua col pretesto di “sicurezza” interna e di necessità di conservare una pace apparente.
9. Gli illustri Presenti mi perdoneranno tale ricordo: ma sarei infedele alla storia del nostro secolo, non sarei onesto di fronte alla grande causa dell’uomo che tutti desideriamo servire, se – provenendo da quel Paese, sul cui vivo corpo è stato costruito, un tempo, “Oswiecim” – io tacessi. Lo ricordo tuttavia, illustrissimi e cari Signore e Signori, soprattutto al fine di dimostrare da quali dolorose esperienze e sofferenze di milioni di persone è sorta la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che è stata posta come ispirazione di base, come pietra angolare dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Questa Dichiarazione è costata milioni di nostri Fratelli e Sorelle che l’hanno pagata con la propria sofferenza e sacrificio, provocati dall’abbrutimento che aveva reso sorde e ottuse le coscienze umane dei loro oppressori e degli artefici di un vero genocidio.
Questo prezzo non può essere stato pagato invano! La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo – con tutto il corredo di numerose Dichiarazioni e Convenzioni su aspetti importantissimi dei diritti umani, a favore dell’infanzia, della donna, dell’uguaglianza tra le razze, e particolarmente i due Patti internazionali sui diritti economici, sociali e culturali, e sui diritti civili e politici – deve rimanere nell’Organizzazione delle Nazioni Unite il valore di base con cui la coscienza dei suoi Membri si confronti e da cui attinga la sua ispirazione costante. Se le verità e i principi contenuti in questo documento venissero dimenticati, trascurati, perdendo la genuina evidenza di cui rifulgevano al momento della nascita dolorosa, allora la nobile finalità dell’Organizzazione delle Nazioni Unite potrebbe trovarsi di fronte alla minaccia di una nuova rovina. Ciò avverrebbe se sulla semplice e insieme forte eloquenza della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo prendesse decisamente il sopravvento un interesse, che si definisce ingiustamente “politico”, ma che significa spesso soltanto guadagno e profitto unilaterale a danno di altri, oppure volontà di potenza che non tiene conto delle esigenze altrui, tutto ciò quindi che, per sua natura, è contrario allo spirito della Dichiarazione. “L’interesse politico” così inteso, perdonatemi, Signori, porta disonore alla nobile e difficile missione che è propria del vostro servizio per il bene delle vostre Nazioni e di tutta l’umanità.
10. Quattordici anni fa, parlava da questa tribuna il mio grande Predecessore Papa Paolo VI. Egli ha allora pronunziato alcune parole memorabili che desidero oggi ripetere:
“Non più la guerra, non più! Mai più gli uni contro gli altri”, e neppure “l’uno sopra l’altro”, ma sempre, in ogni occasione, “gli uni con gli altri”.
Paolo VI è stato un instancabile servo della causa della pace. Anch’io desidero seguirlo con tutte le mie forze e continuare tale suo servizio. La Chiesa cattolica, in tutti i luoghi della terra, proclama un messaggio di pace, prega per la pace, educa l’uomo alla pace. Questa finalità è condivisa, e per essa si impegnano anche rappresentanti e seguaci di altre Chiese e Comunità, e di altre religioni del mondo. E questo lavoro, unito agli sforzi di tutti gli uomini di buona volontà, porta certamente frutti. Tuttavia sempre ci turbano i conflitti bellici che ogni tanto scoppiano. Quanto ringraziamo il Signore quando si riesce, con intervento diretto, a scongiurarne qualcuno, come per esempio la tensione che minacciava l’anno scorso l’Argentina e il Cile. Quanto auspico che anche nelle crisi del Medio Oriente ci si possa avvicinare ad una soluzione. Mentre sono pronto ad apprezzare ogni passo o tentativo concreto che si fa per la composizione del conflitto, ricordo che esso non avrebbe valore se non rappresentasse davvero la “prima pietra” di una pace generale e globale della regione. Una pace che, non potendo non fondarsi sull’equo riconoscimento dei diritti di tutti, non può non includere la considerazione e la giusta soluzione del problema palestinese. Con esso è connesso anche quello della tranquillità, dell’indipendenza e dell’integrità territoriale del Libano nella formula che ne ha fatto esempio di pacifica e mutuamente fruttuosa coesistenza di comunità distinte e che auspico sia mantenuto nel comune interesse, pur con gli adeguamenti richiesti dagli sviluppi della situazione. Auspico inoltre uno statuto speciale che, sotto garanzie internazionali – come ebbe ad indicare il mio Predecessore Paolo VI – assicuri il rispetto della particolare natura di Gerusalemme, patrimonio sacro alla venerazione di milioni di credenti delle tre grandi Religioni monoteistiche, l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam.
Non meno ci turbano le informazioni sullo sviluppo degli armamenti, che oltrepassano mezzi e dimensioni di lotta e distruzione mai finora conosciuti. Anche qui, incoraggiamo le decisioni e gli accordi che tendono a frenarne la corsa. Tuttavia la minaccia della distruzione, il rischio che emerge perfino dall’accettare certe “tranquillizzanti” informazioni, incombono gravemente sulla vita dell’umanità contemporanea. Anche il resistere a proposte concrete ed effettive di reale disarmo – come quelle che questa Assemblea ha richiesto, lo scorso anno, in una Sessione Speciale – testimonia che – con la volontà di pace dichiarata da tutti e dai più desiderata – coesista, forse nascosto, forse ipotetico, ma reale, il suo contrario e la sua negazione. I continui preparativi alla guerra, di cui fa fede la produzione di armi sempre più numerose, più potenti e sofisticate in vari paesi, testimoniano che si vuole essere pronti alla guerra, ed essere pronti vuol dire essere in grado di provocarla, vuol dire anche correre il rischio che in qualche momento, in qualche parte, in qualche modo qualcuno possa mettere in moto il terribile meccanismo di distruzione generale.
11. È perciò necessario un continuo, anzi un ancor più energico sforzo, che tenda a liquidare le stesse possibilità di provocazioni alla guerra, per rendere impossibili i cataclismi, agendo sugli atteggiamenti, sulle convinzioni, sulle stesse intenzioni e aspirazioni dei Governi e dei Popoli. Questo compito, sempre presente all’Organizzazione delle Nazioni Unite e alle sue singole istituzioni, non può non essere di ogni società, di ogni regime, di ogni Governo. A questo compito serve certamente ogni iniziativa che abbia come fine la cooperazione internazionale nel promuovere lo “sviluppo”. Come disse Paolo VI a conclusione della sua Enciclica Populorum Progressio: “Se lo sviluppo è il nuovo nome della pace, chi non vorrebbe cooperarvi con tutte le sue forze?”. Tuttavia a questo compito deve servire anche una costante riflessione e attività che tenda a scoprire le radici stesse dell’odio, della distruzione, del disprezzo di tutto ciò che fa nascere la tentazione della guerra non tanto nel cuore delle nazioni quanto nella determinazione interiore dei sistemi che sono responsabili della storia di tutte le società intere. In questo lavoro titanico – vero lavoro di costruzione del futuro pacifico del nostro pianeta – l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha indubbiamente un compito chiave e direttivo, per il quale non può non riportarsi ai giusti ideali contenuti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Questa Dichiarazione ha infatti realmente colpito le molteplici e profonde radici della guerra, perché lo spirito di guerra, nel suo primitivo e fondamentale significato, spunta e matura là dove gli inalienabili diritti dell’uomo vengono violati.
Questa è una nuova visuale, profondamente attuale, più profonda e più radicale, della causa della pace. È una visuale che vede la genesi della guerra e, in certo senso, la sua sostanza nelle forme più complesse che promanano dall’ingiustizia, considerata sotto tutti i suoi vari aspetti, la quale prima attenta ai diritti dell’uomo e per questi recide l’organicità dell’ordine sociale, ripercuotendosi in seguito su tutto il sistema dei rapporti internazionali. L’Enciclica di Giovanni XXIII Pacem in Terris sintetizza, nel pensiero della Chiesa, il giudizio più vicino ai fondamenti ideali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Bisogna conseguentemente basarsi su di esso e attenervisi, con perseveranza e lealtà, per stabilire cioè la vera “pace sulla terra”.
12. Applicando questo criterio dobbiamo diligentemente esaminare quali tensioni principali legate ai diritti inalienabili dell’uomo possano far vacillare la costruzione di questa pace, che tutti desideriamo ardentemente, e che è anche il fine essenziale degli sforzi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Non è facile, ma è indispensabile. Nell’intraprenderla ognuno deve situarsi in una posizione del tutto oggettiva, essere guidato dalla sincerità, dalla disponibilità nel riconoscere i propri pregiudizi od errori, e perfino dalla disponibilità nel rinunciare a particolari interessi anche politici. La pace è, infatti, un bene più grande e più importante di ciascuno di essi. Sacrificando questi interessi alla causa della pace, li serviamo in modo più giusto. Nell’interesse politico “di chi può mai essere una nuova guerra?”.
Ogni analisi deve necessariamente partire dalle stesse premesse: che cioè ogni essere umano possiede una dignità la quale, benché la persona esista sempre in un contesto sociale e storico concreto, non potrà mai essere sminuita, ferita o distrutta, ma al contrario dovrà essere rispettata e protetta, se si vuole realmente costruire la pace.
13. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e gli strumenti giuridici sia a livello internazionale che nazionale, secondo un movimento che non ci si può augurare se non progressivo e continuo, cercano di creare una coscienza generale della dignità dell’uomo, e di definire almeno alcuni dei diritti inalienabili dell’uomo. Mi sia permesso di enumerarne qualcuno tra i più importanti e universalmente riconosciuti: il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona; il diritto all’alimentazione, all’abbigliamento, all’alloggio, alla salute, al riposo e agli svaghi; il diritto alla libertà di espressione, all’educazione e alla cultura; il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione e il diritto a manifestare la propria religione, individualmente o in comune, tanto in privato che in pubblico; il diritto di scegliere il proprio stato di vita, di fondare una famiglia e di godere di tutte le condizioni necessarie alla vita familiare; il diritto alla proprietà e al lavoro, a condizioni eque di lavoro e ad un giusto salario; il diritto di riunione e di associazione; il diritto alla libertà di movimento e alla migrazione interna ed esterna; il diritto alla nazionalità e alla residenza; il diritto alla partecipazione politica e il diritto alla libera scelta del sistema politico del popolo al quale si appartiene. L’insieme dei diritti dell’uomo corrisponde alla sostanza della dignità dell’essere umano, inteso integralmente, e non ridotto a una sola dimensione; essi si riferiscono alla soddisfazione dei bisogni essenziali dell’uomo, all’esercizio delle sue libertà, alle sue relazioni con altre persone; ma essi si riferiscono sempre e dovunque all’uomo, alla sua piena dimensione umana.
14. L’uomo vive contemporaneamente nel mondo dei valori materiali e in, quello dei valori spirituali. Per l’uomo concreto che vive e spera, i bisogni, le libertà e le relazioni con gli altri non corrispondono mai solamente all’una o all’altra sfera di valori, ma appartengono ad ambedue le sfere. È lecito considerare separatamente i beni materiali ed i beni spirituali, ma per meglio comprendere che nell’uomo concreto essi sono inseparabili, e per vedere altresì che ogni minaccia ai diritti umani, sia nell’ambito dei beni materiali che in quello dei beni spirituali, è ugualmente pericolosa per la pace, perché riguarda sempre l’uomo nella sua integralità.
I miei illustri interlocutori mi consentano di richiamare una regola costante della storia dell’uomo, già implicitamente contenuta in tutto ciò che è stato ricordato a proposito dei diritti dell’uomo e dello sviluppo integrale. Questa regola è basata sulla relazione fra i valori spirituali e quelli materiali o economici. In tale relazione, il primato spetta ai valori spirituali, per riguardo alla natura stessa di questi valori come anche per motivi che riguardano il bene dell’uomo. Il primato dei valori dello spirito definisce il significato proprio ed il modo di servirsi dei beni terreni e materiali, e si trova, per questo stesso fatto, alla base della giusta pace. Tale primato dei valori spirituali, d’altra parte, influisce nel far sì che lo sviluppo materiale, tecnico e di civilizzazione serva a ciò che costituisce l’uomo, cioè che renda possibile il pieno accesso alla verità, allo sviluppo morale, alla totale possibilità di godere i beni della cultura di cui siamo eredi, e a moltiplicare tali beni a mezzo della nostra creatività. Ecco, è facile costatare che i beni materiali hanno una capacità non certo illimitata di soddisfare i bisogni dell’uomo; in sé, non possono essere distribuiti facilmente e, nel rapporto tra chi li possiede e ne gode e chi ne è privo, provocano tensioni, dissidi, divisioni, che possono arrivare spesso alla lotta aperta. I beni spirituali possono essere invece in godimento contemporaneo di molti, senza limiti e senza diminuzione del bene stesso. Anzi, più grande è il numero degli uomini che partecipa ad un bene, più se ne gode e ad esso si attinge, più quel bene dimostra il suo indistruggibile e immortale valore. È una realtà confermata ad esempio dalle opere della creatività, cioè del pensiero, della poesia, della musica, delle arti figurative, frutti dello spirito dell’uomo.
15. Un’analisi critica della nostra civiltà contemporanea mette in luce che essa, soprattutto durante l’ultimo secolo, ha contribuito, come mai prima, allo sviluppo dei beni materiali, ma ha anche generato, in teoria e ancor più in pratica, una serie di atteggiamenti in cui, in misura più o meno rilevante, è diminuita la sensibilità per la dimensione spirituale dell’esistenza umana, a causa di certe premesse per cui il senso della vita umana è stato rapportato in prevalenza ai molteplici condizionamenti materiali ed economici, cioè alle esigenze della produzione, del mercato, del consumo, delle accumulazioni di ricchezze, o della burocratizzazione con cui si cercano di regolare i corrispondenti processi. E questo non è frutto anche dell’aver subordinato l’uomo ad una sola concezione e sfera di valori?
16. Quale legame ha questa nostra considerazione con la causa della pace e della guerra? Dato che, come abbiamo già detto in precedenza, i beni materiali, per la stessa loro natura, sono origine di condizionamenti e di divisioni, la lotta per conquistarli diventa inevitabile nella storia dell’uomo. Coltivando questa unilaterale subordinazione umana ai soli beni materiali non saremo capaci di superare tale stato di necessità. Potremo attenuarlo, scongiurarlo nel caso particolare, ma non riusciremo ad eliminarlo in modo sistematico e radicale, se non mettiamo in luce e in onore più largamente, agli occhi di ogni uomo, alla prospettiva di tutte le società la seconda dimensione dei beni: la dimensione che non divide gli uomini, ma li fa comunicare tra loro, li associa e li unisce.
Ritengo che il prologo famoso della Carta delle Nazioni Unite, in cui i Popoli delle Nazioni Unite, “decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra”, riaffermavano solennemente “la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne, e delle nazioni grandi e piccole” intende dare evidenza a tale dimensione.
Non si possono infatti combattere i germi delle guerre in modo soltanto superficiale, “sintomatico”. Bisogna farlo in modo radicale, risalendo alle cause. Se mi sono permesso di richiamare l’attenzione sulla dimensione dei beni spirituali, l’ho fatto per sollecitudine per la causa della pace, che si costruisce con l’unione degli uomini intorno a ciò che è al massimo, e più profondamente, umano, che eleva gli esseri umani al di sopra del mondo che li circonda e decide della loro indistruttibile grandezza: indistruttibile nonostante la morte alla quale ciascuno di questa terra è soggetto. Vorrei aggiungere che la Chiesa cattolica, e, sento di poter dire, tutta la cristianità, vedono proprio in questo campo il loro compito particolare. Il Concilio Vaticano II aiutò a stabilire ciò che la fede cristiana ha in comune in questa aspirazione, con le diverse religioni non-cristiane. La Chiesa è quindi grata a tutti coloro che, nei confronti di tale sua missione, si comportano con rispetto e benvolere, e non la ostacolano o la rendono difficile. L’analisi della storia dell’uomo, in particolare nella sua epoca attuale, dimostra quanto rilevante è il dovere di svelare più pienamente la portata di questi beni ai quali corrisponde la dimensione spirituale dell’esistenza umana. Dimostra quanto importante è questo compito per la costruzione della pace, e quanto grave sia ogni minaccia contro i diritti dell’uomo. La loro violazione, anche nella condizione “di pace”, è una forma di guerra contro l’uomo. Sembra che esistano due principali minacce nel mondo contemporaneo, che riguardano l’una e l’altra i diritti dell’uomo nell’ambito dei rapporti internazionali e all’interno dei singoli Stati o società.
17. Il primo genere di minaccia sistematica contro i diritti dell’uomo è legato, in un senso globale, alla distribuzione dei beni materiali, spesso ingiusta sia nelle singole società che nell’intero globo. È noto che questi beni sono dati all’uomo non soltanto come ricchezze della natura, ma in maggior parte vengono da lui goduti come frutto della sua molteplice attività, dal più semplice lavoro manuale e fisico, fino alle più complicate forme della produzione industriale, e alle ricerche e studi di specializzazioni altamente qualificate. Varie forme di disuguaglianza nel possesso dei beni materiali, e nel godimento di essi si spiegano spesso con diverse cause e circostanze di natura storica e culturale. Ma tali circostanze, se pur possono diminuire la responsabilità morale dei contemporanei, non impediscono che le situazioni di disuguaglianza siano contrassegnate dall’ingiustizia e dal danno sociale.
Bisogna quindi prendere coscienza che le tensioni economiche esistenti nei singoli paesi, nelle relazioni tra gli Stati e perfino tra interi continenti, portano insiti in se stesse elementi sostanziali che limitano o violano i diritti dell’uomo, per esempio lo sfruttamento del lavoro, e i molteplici abusi della dignità dell’uomo. Ne consegue che il criterio fondamentale secondo il quale si può stabilire un confronto tra i sistemi socio-economico-politici non è, e non può essere, il criterio di natura egemonico-imperialista, ma può, anzi deve essere quello di natura umanistica, cioè la misura in cui ognuno di essi sia veramente capace di ridurre, frenare ed eliminare al massimo le varie forme di sfruttamento dell’uomo, e di assicurare all’uomo, mediante il lavoro, non soltanto la giusta distribuzione, dei beni materiali indispensabili, ma anche una partecipazione corrispondente alla sua dignità, all’intero processo di produzione e alla stessa vita sociale che, intorno a questo processo, si viene formando. Non dimentichiamo che l’uomo, benché dipenda per vivere dalle risorse del mondo materiale, non può esserne lo schiavo, ma il signore. Le parole del libro della Genesi: “Riempite la terra; soggiogatela” (Gen 1,28) costituiscono in un certo senso una direttiva primaria ed essenziale nel campo dell’economia e della politica del lavoro.
18. Certamente in questo campo l’umanità intera, e le singole nazioni hanno compiuto, durante l’ultimo secolo, un notevole progresso. Ma non mancano mai in questo campo le minacce sistematiche e le violazioni dei diritti dell’uomo. Sussistono spesso come fattori di turbamento le terribili disparità fra gli uomini e i gruppi eccessivamente ricchi da una parte, e dall’altra parte la maggioranza numerica dei poveri o addirittura dei miserabili, privi di nutrimento, di possibilità di lavoro e di istruzione, condannati in gran numero alla fame e alle malattie. Ma una certa preoccupazione è talvolta suscitata anche da una radicale separazione del lavoro dalla proprietà, cioè dall’indifferenza dell’uomo nei confronti dell’impresa di produzione alla quale lo leghi soltanto un obbligo di lavoro, senza la convinzione di lavorare per un bene suo o per se stesso.
È comunemente noto che l’abisso tra la minoranza degli eccessivamente ricchi e la moltitudine dei miseri è un sintomo ben grave nella vita di ogni società. Lo stesso bisogna ripetere, con insistenza ancora più forte, a proposito dell’abisso che divide singoli Paesi e regioni del globo terrestre. Può questa disparità grave, che contrappone aree di sazietà ad aree di fame e di depressioni, essere colmata in altro modo se non mediante una cooperazione coordinata di tutte le Nazioni? A ciò è necessaria anzitutto un’unione ispirata ad una autentica prospettiva di pace. Ma tutto dipenderà dal fatto se quei dislivelli e contrasti nell’ambito del “possesso” dei beni, saranno ridotti sistematicamente e con mezzi veramente efficaci; se spariranno dalla carta economica del nostro globo le zone della fame, della denutrizione, della miseria, del sottosviluppo, della malattia, dell’analfabetismo; e se la pacifica cooperazione non porrà condizioni di sfruttamento, di dipendenza economica o politica, che sarebbero soltanto una forma di neo-colonialismo.
19. Vorrei, ora richiamare l’attenzione sulla seconda specie di minaccia sistematica, di cui è oggetto, nel mondo contemporaneo, l’uomo nei suoi intangibili diritti, e che costituisce, non meno della prima, un pericolo alla causa della pace, ossia le diverse forme di ingiustizia nel campo dello spirito.
Si può infatti ferire l’uomo nella sua interiore relazione alla verità, nella sua coscienza, nelle sue convinzioni più personali, nella sua concezione del mondo, nella sua fede religiosa, così come nella sfera delle cosiddette libertà civili nelle quali è decisiva l’eguaglianza di diritti senza discriminazione a motivo di origine, razza, sesso, nazionalità, confessione, convinzioni politiche e simili. L’eguaglianza di diritti vuol dire l’esclusione delle diverse forme di privilegio degli uni e di discriminazione degli altri, siano individui nati in una stessa nazione, siano uomini di diversa storia, nazionalità, razza e pensiero. Lo sforzo della civilizzazione tende da secoli in una direzione, dare cioè alla vita delle singole società politiche una forma in cui possono essere pienamente garantiti i diritti obiettivi dello spirito, della coscienza umana, della creatività umana, inclusa la relazione dell’uomo con Dio. Eppure siamo sempre testimoni delle minacce e violazioni che in questo campo ritornano, spesso senza possibilità di ricorsi ed istanze superiori o di rimedi efficaci.
Accanto all’accettazione di formule legali che garantiscono come principio le libertà dello spirito umano per es. la libertà di pensiero, di espressione, la libertà religiosa, la libertà di coscienza, esiste spesso una strutturazione della vita sociale in cui l’esercizio di queste libertà condanna l’uomo, se non nel senso formale almeno di fatto a divenire un cittadino di seconda o di terza categoria, a vedere compromesse le proprie possibilità di promozione sociale, di carriera professionale, o di accesso a certe responsabilità, e a perdere perfino la possibilità di educare liberamente i propri figli. È questione di massima importanza che, nella vita sociale interna ed in quella internazionale, tutti gli uomini in ogni nazione e paese, in ogni regime o sistema politico, possano godere una effettiva pienezza di diritti.
Soltanto una tale effettiva pienezza di diritti, garantita ad ogni uomo senza discriminazioni, può assicurare la pace alle stesse sue radici.
20. Per quanto riguarda la libertà religiosa, che a me, come Papa, non può non stare particolarmente a cuore, anche in relazione proprio alla salvaguardia della pace, vorrei riportare qui, come contributo ideale al rispetto della dimensione spirituale dell’uomo, alcuni principi contenuti nella Dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II.
“A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze” (Dignitatis Humanae, 1,2).
“Infatti l’esercizio della religione, per sua stessa natura, consiste anzitutto in atti interni volontari e liberi, con i quali l’essere umano si dirige immediatamente verso Dio: i quali atti da un’autorità meramente umana non possono essere né comandati, né proibiti. Però la stessa natura sociale dell’essere umano esige che egli esprima esternamente gli atti interni di religione, comunichi con altri in materia religiosa, professi la propria religione in modo comunitario” (Ivi, 1,3).
Queste parole toccano la sostanza del problema. Dimostrano anche in che modo lo stesso confronto tra la concezione religiosa del mondo e quella agnostica o anche ateistica, che è uno dei “segni dei tempi” della nostra epoca, potrebbe conservare leali e rispettose dimensioni umane senza violare gli essenziali diritti della coscienza di nessun uomo o donna che vivono sulla terra.
Lo stesso rispetto della dignità della persona umana sembra richiedere che, quando sia discusso o stabilito, in vista di leggi nazionali o di convenzioni internazionali, il giusto tenore dell’esercizio della libertà religiosa, siano coinvolte anche le istituzioni, che per loro natura servono la vita religiosa. Trascurando tale partecipazione, si rischia di imporre delle norme o delle restrizioni in un campo tanto intimo della vita dell’uomo, che sono contrarie ai suoi veri bisogni religiosi.
21. L’Organizzazione delle Nazioni Unite ha proclamato l’anno 1979 l’anno del Fanciullo. Desidero quindi, in presenza dei rappresentanti qui riuniti di tante nazioni del globo, esprimere la gioia che per ognuno di noi costituiscono i bambini, primavera della vita, anticipo della storia futura di ognuna delle presenti patrie terrestri. Nessun paese del mondo, nessun sistema politico può pensare al proprio avvenire diversamente se non tramite l’immagine di queste nuove generazioni che dai loro genitori assumeranno il molteplice patrimonio dei valori, dei doveri, delle aspirazioni della nazione alla quale appartengono insieme con quello di tutta la famiglia umana. La sollecitudine per il bambino, ancora prima della sua nascita, dal primo momento della concezione e, in seguito, negli anni dell’infanzia e della giovinezza è la prima e fondamentale verifica della relazione dell’uomo all’uomo.
E perciò, che cosa di più si potrebbe augurare a ogni nazione e a tutta l’umanità, a tutti i bambini del mondo se non quel migliore futuro in cui il rispetto dei Diritti dell’Uomo diventi una piena realtà nelle dimensioni del Duemila che s’avvicina?
22. Ma in tale prospettiva dobbiamo chiederci se continuerà ad accumularsi sul capo di questa nuova generazione di bambini la minaccia del comune sterminio i cui mezzi si trovano nelle mani degli Stati contemporanei, e particolarmente delle maggiori Potenze della terra. Dovranno forse ereditare da noi, come un patrimonio indispensabile, la corsa agli armamenti? Con che cosa possiamo spiegare questa corsa sfrenata? Gli antichi solevano dire: “si vis pacem, para bellum”. Ma la nostra epoca può credere ancora che la vertiginosa spirale degli armamenti serva alla pace del mondo? Adducendo la minaccia di un nemico potenziale si pensa invece a riservarsi a propria volta un mezzo di minaccia per ottenere, con l’aiuto del proprio arsenale di distruzione, il sopravvento? Anche qui è la dimensione umana della pace che tende a svanire in favore di eventuali, sempre nuovi imperialismi.
Bisogna dunque augurare qui, in modo solenne, ai nostri bambini, ai bambini di tutte le nazioni della terra che non si arrivi mai a tale punto. E per ciò non cesso di supplicare ogni giorno Iddio che ci preservi, con la sua misericordia, da un simile giorno terribile.
23. Alla fine di questo discorso, desidero esprimere ancora una volta davanti a tutti gli Alti Rappresentanti degli Stati qui presenti un pensiero di stima e di profondo amore per tutti i popoli, per tutte le nazioni della terra, per tutte le comunità di uomini. Ognuna di esse ha la propria storia e cultura: auguro che possano vivere e svilupparsi nella libertà e nella verità della propria storia. Poiché tale è la misura del bene comune di ognuna di esse. Auguro che ciascuno possa vivere e fortificarsi con la forza morale di questa comunità, che forma i suoi membri come cittadini. Auguro che le autorità statali, rispettando i giusti diritti di ciascun cittadino, possano godere, per il bene comune, la fiducia di tutti.
Auguro che tutte le Nazioni, anche le più piccole, anche quelle che non ancora godono della piena sovranità e quelle alle quali è stata forzatamente tolta, possano ritrovarsi in piena uguaglianza con le altre nell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Auguro che l’Organizzazione delle Nazioni Unite rimanga sempre il supremo foro della pace e della giustizia: autentica sede della libertà dei popoli e degli uomini nella loro aspirazione a un futuro migliore.
© Copyright 1979- Libreria Editrice Vaticana
Saluto al Segretario Generale delle Nazioni Unite (2 ottobre 1979)
Ai rappresentanti delle organizzazioni non governative (2 ottobre 1979)
Agli operatori della comunicazione sociale presso l’Onu (2 ottobre 1979)
Ai membri del Segretariato dell’Onu (2 ottobre 1979)
Saluto alla partenza dall'ONU (2 ottobre 1979)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento