martedì 13 novembre 2007

Benedetto XVI: l'evoluzione? Non esclude il Dio Creatore


L’evoluzione? Non esclude il Dio creatore

DI BENEDETTO XVI

Nelle quattro relazioni che abbiamo ascoltato, davanti a noi si apre un ampio spettro su cui potremmo discutere molto a lungo, ma per cui purtroppo abbiamo poco tempo a disposizione. Dopo la pausa possiamo ancora discutere alcune questioni. Penso che soprattutto gli stessi relatori vogliano dirsi qualcosa l’uno con l’altro, l’uno per l’altro, e l’uno contro l’altro, ma sempre in una contrapposizione produttiva che mira a far sì che conosciamo la verità e ce ne assumiamo la responsabilità.
Dobbiamo pensare a quello che vogliamo fare con il tesoro delle quattro relazioni. Anch’esse forse hanno un telos. Ho l’impressione che sia stata la provvidenza che ha indotto il cardinale Schönborn a scrivere una glossa sul New York Times, a rendere di nuovo pubblico questo tema e a indicare dove stiano le questioni: che non si tratta di decidersi né per un creazionismo, che si chiude sostanzialmente alla scienza, né per una teoria dell’evoluzione che dissimula i propri vuoti o lacune e non vuole vedere le questioni che travalicano le possibilità del metodo delle scienze naturali. Si tratta piuttosto di questa interazione fra diverse dimensioni della ragione, in cui si schiude anche la via alla fede.
Quando egli fra ratio e fides mette l’accento sulla scientia o philosophia, allora in fondo si tratta di recuperare nuovamente una dimensione della ragione che avevamo perduta. Senza di essa la fede verrebbe esiliata in un ghetto e così si perderebbe il suo significato per la totalità della realtà e dell’essere umano.
Quello che ora dico, in effetti, è già in certo qual modo superato dalle nuove relazioni, perché è derivato direttamente dall’ascolto della relazione del professor Schuster, ma lo vorrei dire comunque. Il professor Schuster ha da un lato indicato in modo sorprendente la logica della teoria dell’evoluzione che si è andata sviluppando, arrivando a poco a poco a una grande coesione, e anche le correzioni interne che nel contempo si sono trovate (soprattutto a Darwin); dall’altro, ha anche molto chiaramente messo in risalto le questioni che restano aperte.

Non è che adesso io voglia stipare il buon Dio in questi vuoti: egli è troppo grande per trovare posto in quei vuoti. Ma a me pare importante sottolineare che la teoria dell’evoluzione implica delle domande che devono essere assegnate alla filosofia e che di per sé esulano dall’ambito proprio delle scienze naturali.

A me pare importante, in particolare, come prima cosa, che la teoria dell’evoluzione in gran parte non sia dimostrabile sperimentalmente in modo tanto facile perché non possiamo introdurre in laboratorio 10.000 generazioni. Ciò significa che ci sono dei vuoti o lacune rilevanti di verificabilità-falsificabilità sperimentale a causa dell’enorme spazio temporale cui la teoria si riferisce.

Come seconda cosa a me è parsa importante un’altra sua affermazione: la probabilità non equivale a zero ma neppure a uno. Per cui si pone la domanda: a quale altezza si situa la probabilità? Ciò è importante se vogliamo interpretare correttamente la frase di Papa Giovanni Paolo II: «La teoria dell’evoluzione è più di un’ipotesi». Quando il Papa disse questo, aveva i suoi buoni motivi. Ma nello stesso tempo è anche vero che la teoria dell’evoluzione non è ancora una teoria completa, scientificamente verificabile.

Come terza cosa vorrei accennare ai salti di cui ha già parlato anche il cardinale Schönborn. Non basta la somma di piccoli passi. Ci sono dei «salti». La domanda sul loro significato va ulteriormente approfondita.

Come quarta cosa è interessante che i mutanti positivi siano solo pochi e che il corridoio, in cui si poteva svolgere lo sviluppo, è stretto.

Questo corridoio è stato aperto e attraversato. Le scienze naturali stesse e la teoria dell’evoluzione possono rispondere in modo sorprendente a molte cose, ma nei quattro punti menzionati rimangono ancora aperte questioni rilevanti.
Prima che giunga alla mia conclusione, vorrei dire qualcosa, cui ha già accennato anche il cardinale Schönborn: non solo alcuni testi scientifico-popolari, ma anche scientifici sull’evoluzione affermano di frequente che la «natura» o l’«evoluzione» avrebbe fatto questo o quello.
Qui ci si domanda: chi è propriamente la «natura» o l’«evoluzione» come soggetto? Infatti non esiste! Quando si dice che la natura fa questo o quello, ciò può essere solo un tentativo di raggruppare una serie di eventi in un soggetto che però non esiste come tale.
A me pare evidente che questo espediente verbale – forse inevitabile – racchiuda in sé domande di un certo peso.

Riassumendo potrei dire: le scienze naturali hanno schiuso grandi dimensioni della ragione che finora non erano state aperte, e ci hanno trasmesso così delle nuove conoscenze. Ma nella gioia per la grandezza della loro scoperta esse tendono a toglierci dimensioni della ragione di cui continuiamo ad avere bisogno. I loro risultati sollevano delle domande che vanno oltre la competenza del loro canone metodologico e alle quali in esso non è possibile dare una risposta. Tuttavia, sono domande che la ragione deve porre e che non possono essere lasciate solo al sentimento religioso. Bisogna considerarle come domande ragionevoli e trovare anche dei modi ragionevoli di trattarle.

Sono le grandi domande fondamentali della filosofia che ci si presentano in forma nuova: la domanda sull’origine e sul futuro dell’uomo e del mondo. Inoltre, di recente, mi sono reso conto di due cose, che hanno illustrato anche le tre relazioni che si sono succedute: c’è da un lato una razionalità della stessa materia. Si può leggerla.
Essa ha una matematica in sé, è essa stessa ragionevole, anche se nel lungo cammino dell’evoluzione c’è l’irrazionale, il caotico e il distruttivo; ma la materia come tale è leggibile.
D’altro lato, a me pare che anche il processo come un tutto abbia una razionalità. Nonostante il suo errare e percorrere strade sbagliate lungo lo stretto corridoio, nella scelta delle poche mutazioni positive e nello sfruttamento della poca probabilità, il processo stesso è qualcosa di razionale.

Questa doppia razionalità che si rende di nuovo accessibile corrispondendo alla nostra ragione porta inevitabilmente a una domanda che esorbita dalla scienza, ma che comunque è una domanda della ragione: da dove viene questa razionalità? C’è una razionalità originaria che si rispecchia in queste due zone e dimensioni della razionalità?

Le scienze naturali non possono e non devono rispondere direttamente, ma noi dobbiamo riconoscere la domanda come ragionevole e osare credere alla ragione creatrice e affidarci a essa.
Da una parte c’è la razionalità della materia, che apre una finestra sul Creator Spiritus. A questo non dobbiamo rinunciare. È la fede biblica nella creazione che ci ha indicato la via a una civiltà della ragione, nelle cui possibilità c’è anche naturalmente quella di annientarsi nuovamente. Questa è una dimensione che deve rimanere e che io definisco anche una dimensione di contatto fra il greco e il biblico, che dovettero ambedue fondersi in una interna ragione e in una interna necessità.
D’altro lato, tuttavia, noi dobbiamo anche vedere i limiti.
Naturalmente, nella natura c’è la razionalità, ma essa non ci permette di avere una visione totale del piano di Dio. Quindi nella natura permangono la contingenza e l’enigma dell’orribile, un po’ come lo descrive Reinhold Schneider dopo una visita al Museo di scienze naturali di Vienna. (Anch’io una volta ho visitato con mio fratello questo museo, ed eravamo sgomenti di fronte a tante cose orribili in natura.)
Nonostante la razionalità, che c’è, noi possiamo constatare una componente di orrore, che non è più risolvibile filosoficamente. Qui la filosofia reclama qualcosa di ulteriore e la fede ci mostra il Logos, che è la ragione creatrice e che in modo incredibile poté farsi carne, morire e risuscitare. In questo modo ci si rivela un volto del Logos del tutto diverso da quello che noi possiamo presagire e cercare a tentoni partendo da una ricostruzione dei fondamenti della natura. Anche le due parti dell’anima greca vi alludono: da una parte la grande filosofia e dall’altra la tragedia, che in ultima analisi rimane senza risposta.

© Copyright Avvenire, 13 novembre 2007

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