lunedì 17 settembre 2007

MONS.BAGNASCO: CRITICHE AL PAPA DA CATTEDRE DISCUTIBILISSIME


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Conferenza Episcopale Italiana
CONSIGLIO PERMANENTE
Roma, 17-19 settembre 2007


PROLUSIONE DEL PRESIDENTE

Venerati e cari Confratelli,

ci ritroviamo dopo la pausa estiva, all’indomani dell’incontro dei nostri giovani col Santo Padre a Loreto, e alla vigilia quasi della Settimana sociale del centenario, che si svolgerà tra Pistoia e Pisa a metà del mese di ottobre. A unirci sono i vincoli della fede e di una comunione intessuta di fraternità ed amicizia, protesi come siamo alla condivisione della medesima sollecitudine pastorale, per la crescita della fede del nostro popolo.
Invochiamo la sapienza del Signore e la grazia dello Spirito, perché i nostri pensieri e il nostro lavoro siano conformi a ciò che Dio si attende da noi.

1 E il primo pensiero va proprio al recentissimo incontro dei giovani italiani ed europei con Benedetto XVI nella vallata di Montorso, in quel di Loreto. Com’è noto, un analogo convegno, ma naturalmente in un diverso contesto, si era già svolto nel settembre 1995 per invito allora del Servo di Dio Giovanni Paolo II. A dodici anni di distanza, e con una nuova popolazione giovanile, l’incontro si è ora ripetuto come appuntamento intermedio che vuol tenere accesa la fiaccola tra la Giornata mondiale della Gioventù di Colonia e la prossima, programmata a Sidney per l’estate 2008.
Ebbene, non ci poteva essere, per noi e per le nostre comunità, un inizio d’anno più entusiasmante e più carico di promesse di quello vissuto a Loreto. Per il numero dei partecipanti e per la qualità della presenze, l’incontro ha realmente superato ogni attesa. A conferma del fatto che i giovani sanno essere i migliori interpreti della sorpresa che è Dio nelle nostre vite. Quando poi i giovani si uniscono al Papa, sembra quasi che le loro potenzialità vengano come esaltate.
Davvero, possiamo dire anche noi con Benedetto XVI, “quale stupendo spettacolo di fede” è stato − nei suoi diversi momenti − questo appuntamento, per il quale non cesseremo di ringraziare il Signore e la Madre santa. Ritrovarsi a Loreto non ci si sbaglia: quel luogo ha legato a sé una ispirazione speciale. Ma un ringraziamento grande, pieno di ammirazione, lo dobbiamo al Papa stesso, per i doni che ci ha fatto, con la sua presenza e la sua parola. Il dialogo che egli ha intessuto con i giovani, la sua capacità di ascolto, la prontezza e la spontaneità delle sue parole,l’interpretazione che ha dato della loro vita, la comunicazione dello sguardo e dei gesti, sono stati tutti elementi che hanno creato una immediata e straordinaria intesa.

2 Molti di noi, e moltissimi dei nostri Sacerdoti, hanno accompagnato i loro giovani a Loreto, e dunque hanno vissuto di persona quella esperienza, nei suoi aspetti fondamentali. A partire dall’ospitalità che è stata offerta, in avvicinamento a Loreto, dalle 32 diocesi della Romagna, dell’Umbria, dell’Abruzzo e delle Marche, le quali hanno mirabilmente messo a disposizione ciò che di meglio – per fede, storia e arte – potevano porgere ai giovani pellegrini. Ma sono stati proprio gli interventi del Papa a segnare in profondità l’evento, sia nel dialogo intrecciato con i giovani durante la veglia del sabato sia soprattutto nelle parole dell’omelia domenicale. Da subito ha puntato a personalizzare la proposta: “Sì, c’è speranza anche oggi – ha detto nella prima risposta – ciascuno di voi è importante, perché ognuno è conosciuto e voluto da Dio e per ognuno Dio ha un suo progetto”. E quando questo progetto si realizza, non esistono periferie, perché “dove c’è Cristo c’è tutto il centro”. Come non esistono ostacoli insormontabili: “Non abbiate timore – diceva nel discorso della veglia – Cristo può colmare le aspirazioni più intime del vostro cuore… Ciascuno di voi, se resta unito a Cristo, può compiere grandi cose… Niente è impossibile per chi si fida di Dio e si affida a Lui”. E siccome “Dio cerca cuori giovani, cerca giovani dal cuore grande”, ecco che il Papa, attualizzando nella Messa le letture della liturgia, indicava la via del coraggio umile, dell’andare controcorrente: “non ascoltate le voci interessate e suadenti che oggi da molte parti propagandano modelli di vita improntati all’arroganza e alla violenza, alla prepotenza e al successo ad ogni costo, all’apparire e all’avere, a scapito dell’essere”.
Contenuti importanti, anzi decisivi direi, quelli che il Santo Padre ha indicato, e che la nostra Pastorale giovanile non mancherà ora di riproporre in modo adeguato, facendone i capisaldi di una catechesi argomentata. È importante infatti che i giovani siano aiutati a interiorizzare la proposta del Papa, e questo sarà anche il modo per interiorizzare l’esperienza stessa di Loreto.
Su tutto, c’è un messaggio che ricaviamo per noi e per tutti i sacerdoti della nostra Chiesa: che dobbiamo osare, e osare sempre, nel lavoro del Vangelo
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3 La premura del Papa per l’Italia apparirà ancora una volta domenica prossima, nella visita che ha in programma alla diocesi suburbicaria di Velletri, e fra un mese nel viaggio apostolico che lo porterà a Napoli, dove andrà a rinforzare il desiderio di rinascita che quella gente esprime in una tribolata realtà sociale ed economica.
Ancora vivissima è l’eco del pellegrinaggio che il Santo Padre ha compiuto dal 7 al 9 settembre in Austria. L’occasione prossima era data dall’850° anniversario del Santuario di Mariazell, il più importante del Paese e molto frequentato anche dai fedeli di nazioni vicine. Ma il viaggio si è rivelato come un appuntamento ideale con l’intera Europa, di cui l’Austria è come un ponte che unisce l’Est all’Ovest. In ogni sua tappa, questo viaggio ha tenuto presente il contesto dell’Europa, i problemi e la vocazione del nostro continente. E in ogni suo discorso Benedetto XVI ha dimostrato di saper parlare all’uomo del nostro tempo, con parole forti e di grande fascino.

Nel corso degli ultimi mesi peraltro sono venuti dalla Sede Apostolica interventi importanti sotto il profilo ecclesiologico e pastorale, e che bene esprimono la sollecitudine di Benedetto XVI. È un’azione che trova nei Vescovi italiani una ricezione speciale. Gli siamo vicini con la nostra pronta e incondizionata collaborazione sempre, e in modo particolare quando emergono nell’opinione pubblica voci critiche e discordanti. A ben guardare, sono episodi che in nessuna stagione hanno risparmiato i romani Pontefici. È singolare peraltro quella ricorrente pretesa – mossa da “cattedre” discutibilissime – di misurare la fedeltà altrui, Papa compreso, facendola coincidere ovviamente con i propri stilemi e le proprie evoluzioni.

L’iniziativa su cui si è maggiormente concentrata negli ultimi mesi l’attenzione anche intraecclesiale è il “Motu proprio” Summorum Pontificum, relativo all’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, ed entrato ufficialmente in vigore dal 14 settembre scorso. L’obiettivo di questo pronunciamento è chiaramente tutto spirituale e pastorale. Infatti, da una parte “fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa” – come scrive il Papa nella preziosa lettera di accompagnamento del “Motu proprio” –; dall’altra parte è necessario “fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente”.
In questo orizzonte egli chiede di includere come espressione “straordinaria” nella lex orandi della Chiesa il Messale Romano promulgato da San Pio V e aggiornato dal beato Giovanni XXIII nel 1962, posto che la via “ordinaria” resta il Messale Romano varato da Paolo VI nel 1970. E insiste nel precisare che non ci saranno due riti, ma “un uso duplice dell’unico e medesimo rito”, che tutti vogliamo sia sempre più al centro della dinamica ecclesiale, occasione di una piena “riconciliazione” e di un’unità viva nella Chiesa stessa.

4. Quella che il Papa ci sprona ad adottare, oltre le spinte culturali cui si è fatalmente soggetti, è dunque una chiave di lettura inclusiva, non oppositiva. Nella storia della liturgia, come nella vita della Chiesa, c’è “crescita e progresso, ma nessuna rottura”, come già egli ebbe modo di affermare nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. In quella sede infatti, commemorando il 40° anniversario del Concilio Vaticano II, ha indicato valida non “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, bensì quella della “riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”.

In altre parole, è la sollecitudine per l’unità della Chiesa “nello spazio e nel tempo” la leva che muove Benedetto XVI, una tensione che fondamentalmente tocca al Successore di Pietro.
Ma questa passione per l’unità deve muovere ogni cristiano e ogni pastore dinanzi alle prospettive che si aprono con il “Motu proprio”. Non dunque ricerca di un proprio lusso estetico, slegato dalla comunità, e magari in opposizione ad altri, ma volontà di includersi sempre di più nel Mistero della Chiesa che prega e celebra, senza escludere alcuno e senza preclusione ostativa verso altre forme liturgiche o nei confronti del Concilio Vaticano II. Solo così si eviterà che un provvedimento volto ad unire e ad infervorare maggiormente la comunità cristiana sia invece usato per ferirla e dividerla.
Vorrei tuttavia aggiungere che sono ragionevolmente ottimista sulla migliore valorizzazione del “Motu proprio” nella vita delle nostre parrocchie. E confido che talune preoccupazioni pessimiste, da subito emerse, si riveleranno presto infondate. Il senso di equilibrio che da sempre caratterizza il nostro clero e dunque la nostra pastorale farà trovare, grazie all’azione moderatrice dei Vescovi, i modi giusti per far germinare il virgulto nuovo dalla pianta viva della liturgia ecclesiale, e anzi, in ultima istanza, per rilanciare e incrementare questa nel suo insieme
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5 Ma c’è un altro intervento di Benedetto XVI che vorrei qui richiamare, il discorso che egli ha fatto in apertura del convegno pastorale della Diocesi di Roma – l’11 giugno scorso – sul tema dell’educazione. In quella sede veniva affrontato in modo esplicito, ossia come “educazione alla fede, alla sequela e alla testimonianza”. E infatti con questa scansione il Papa l’ha effettivamente affrontato, non mancando tuttavia di segnalare come “oggi, in realtà, ogni opera di educazione sembra diventare sempre più ardua e precaria. Si parla perciò – spiegava – di una grande emergenza educativa, della crescente difficoltà che si incontra nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento”. Una disamina che non lascia margini ad illusioni, considerata la società in cui viviamo, afflitta da uno strano “odio di sé”, e considerata la cultura odierna che fa del “relativismo il proprio credo”, precludendosi in tal modo la possibilità di distinguere la verità e quindi di poterla perseguire.
Come non leggere qui in filigrana le tante vicende di cronaca che hanno assediato la nostra estate, suscitando sgomento e sempre ulteriore allerta? Come non intravedere qui l’atteggiamento di resa che contrassegna tanta prassi sociale, in cui a prevalere sono il divismo, il divertimento spinto ad oltranza, i passatempi solo apparentemente innocui, il disimpegno nichilista e abbrutente la persona, giovane o adulta non importa, ché, tanto, verso il peggio le differenze si annullano?
Su questo tema ingente dell’educazione, possibile anche in una cultura che produce facilmente banalità e omologazione, immagino che come Conferenza episcopale dovremo tornare, alla luce delle piste lanciate dal Papa, con una riflessione articolata che coinvolga magari i diversi soggetti pastorali, e che si stagli all’orizzonte con propositi di un impegno all’altezza delle sfide.

6 Giova tuttavia ricordare che durante il Convegno ecclesiale di Verona – del quale, ad un anno di distanza, vogliamo fare grata memoria – furono già dette cose significative e preziose in ordine all’educare. Non a caso, nella recentissima Nota pastorale che raccoglie i frutti del Convegno, è rifluita buona parte di quelle acquisizioni. Una delle quali mi preme richiamare, non perché sia inedita ma perché è basilare. Mi riferisco all’esigenza ormai da tutti riconosciuta di raccogliere e coltivare sempre meglio l’unità della persona: essa è continuamente insidiata dalla frantumazione e dallo smarrimento, dovuto non tanto alla necessaria articolazione delle esperienze quanto piuttosto alla mancanza di criteri di interpretazione e di sintesi. Il clima di materialismo in cui viviamo tende a sfilacciare le persone e a frantumare i loro punti di vista, in una estenuazione che vorrebbe rendere patetico qualunque richiamo alla coerenza.
Ma il vuoto non si regge in piedi e la vita concreta non si divide a settori o momenti tra loro incomunicabili. Di qui la preziosità dell’indicazione a cui si è giunti a Verona, che peraltro registra consapevolezze già presenti nel nostro laicato più impegnato. Così, quando al numero 12 della Nota si ripercorrono i cinque ambiti sui quali si erano modulati i lavori del Convegno, si vuole dire proprio questo: è la persona, nelle sue dimensioni costitutive, ad essere il soggetto-interlocutore diretto della nostra attenzione pastorale. Dunque, nessun astrattismo si dovrebbe rintracciare nelle nostre iniziative, ma una proposta concreta, che abbraccia la vita, e che porta tutta l’esistenza all’incontro risanatore e liberante di Cristo.
Ed è qui la ragione, a me pare, che sfugge a tanti osservatori “laici”, per la quale anche nell’ambito politico il cattolico cerca una corrispondenza plausibile tra ideali e programmi. Diceva il Papa, nel citato discorso alla diocesi di Roma: “La consapevolezza di essere chiamati a diventare testimoni di Cristo non è pertanto qualcosa che si aggiunge dopo, una conseguenza in qualche modo esterna alla formazione cristiana…”. Questo, mi sia consentita l’osservazione, è esattamente il punto: in nessun ambito, neppure in politica, si possono tralasciare – per opportunismo, o convenzione, o altri motivi – le esigenze etiche intrinseche alla fede. E ciò non in disprezzo, ma per amore della politica e della sottile arte che essa esige.

7 La vicenda di padre Giancarlo Bossi, il missionario rapito nelle Filippine e infine – grazie a Dio – rilasciato (e presente a Loreto con una testimonianza di grande efficacia), come le vite di passione di tutti i nostri missionari, non fanno che renderci consapevoli che questo, anche questo nostro tempo, è tempo di serietà nella fede fino anche al martirio. Il sangue dei martiri non può essere tradito: essi accettano la persecuzione e la morte sempre e solo per amore di Gesù, della Chiesa, e degli uomini che servono in nome di Cristo.
Fin dalle origini, la testimonianza è elemento costitutivo della fede cristiana. I moltissimi fratelli e sorelle che in duemila anni hanno dato e continuano oggi a dare la vita in molte parti del mondo, ci ricordano che non possiamo puntare al ribasso nella vita cristiana, stemperando le esigenze alte del Vangelo e percorrendo la strada dei compromessi dottrinali o morali.
In un simile contesto, amiamo ricordare la testimonianza che offrono i nostri confratelli Vescovi nelle zone più tribolate dalle malversazioni e dai delitti di mafia, camorra e ‘ndrangheta: sappiano che siamo loro vicini e solidali, che li sosteniamo con la preghiera, ammirati della loro dedizione al Vangelo e dell’attaccamento al popolo loro affidato. In tale prospettiva, potrebbe essere opportuno, da parte della nostra Conferenza, riprendere e aggiornare la riflessione che a suo tempo rifluì nel documento dell’Episcopato italiano – “Sviluppo nella solidarietà. Chiesa Italiana e Mezzogiorno” – del 1989.

8 Partecipando – col cuore di Vescovi – alla vita del nostro Paese, e osservando le dinamiche singolari che talora si sviluppano, o certi modelli che si diffondono e fenomeni che improvvisamente prendono piede, c’è un interrogativo che sorge e che formulerei così: esiste una modalità, compatibile con la democrazia, grazie alla quale nutrire un ethos collettivo partecipato e ad un tempo capace di resistere e sopravanzare rispetto alle dissipazioni del costume?
Non è una domanda oziosa. Come non lo è quest’altra: lo Stato, inteso come comunità politica strutturata, ha solo il compito di registrare e in qualche modo regolamentare le spinte comportamentali che emergono dal corpo sociale, o deve anche promuovere un’idea di bene comune da perseguire e dunque trasmettere alle generazioni di domani, in un progetto di società aperta e insieme capace di futuro? So bene che sullo sfondo di simili interrogativi qualcuno potrebbe paventare i fantasmi di uno Stato etico, che in realtà però nessuno vuole, e che noi meno di tutti potremmo accettare. E tuttavia, la preoccupazione di non aprire la strada a queste derive non può essere un alibi che impedisce di affrontare questioni che sono e saranno sempre più decisive.

9 Mi limito qui ad osservare che c’è un legame che unisce il cittadino allo Stato e che questo legame è in concreto condizionato dalla capacità effettiva dello Stato stesso di farsi promotore e garante del bene comune. Si può, d’altro canto, osservare che vi sono situazioni e comportamenti socialmente deplorevoli, anzi criminali, che non riescono a trovare soluzione: pensiamo, ad esempio, al dramma recente e crescente degli incendi boschivi provocati dall’uomo che in questa ultima estate hanno messo in ginocchio intere zone del Paese. Alla luce di simili fatti, ma anche di altre tendenze comportamentali, sembra che diventi sempre più friabile il vincolo sociale e si prosciughi quel tipo di solidarietà su cui una comunità strutturata deve fare affidamento, se vuole essere un paese-non-spaesato.
Ebbene, a me pare illusorio sperare in un improvviso quanto miracolistico rinsavimento morale, se al punto in cui ci troviamo non avviene una ricentratura profonda, da parte dei singoli soggetti e degli organismi sociali, sul senso e sulla ragione dello stare insieme come comunità di destini e di intenti. E se, grazie anche al contributo della religione e alla considerazione ad essa riservata, non acquisteranno una evidenza nuova e una credibilità proporzionata i valori essenziali per una convivenza.
Sono tuttavia convinto che la realtà del nostro popolo non sia assolutamente rappresentata, né tanto meno definita, dai fenomeni peggiori a cui tanta enfasi viene data nella pubblica opinione, rischiando di creare tendenza, quasi si trattasse di nuove scuole di pensiero e di vita. La componente sana della società è ampiamente maggioritaria: nel silenzio dignitoso e in spirito di sacrificio, con ancoraggio alla fede cristiana o per ispirazione a quell’umanesimo non astratto né generico che nel Vangelo trova radici sempre fresche, essa vive i propri doveri, vive la realtà della famiglia e le varie relazioni, vive la sfida irripetibile della propria esistenza terrena con serietà, onestà e dedizione.

10 Dinanzi ai grandi interrogativi cui si è fatto cenno, finiscono per acquistare un valore nuovo le stesse occasioni che il nostro mondo cattolico è solito darsi per “studiare” il tempo presente e utilmente confrontarsi con le istanze che provengono da altri filoni di pensiero o da diverse impostazioni culturali. Dico questo pensando concretamente alla prossima Settimana sociale, in calendario dal 18 al 21 ottobre e che si svolgerà a Pistoia e Pisa. Città scelte non a caso, perché lì prese vita un secolo fa quel movimento delle Settimane sociali che si rivelerà assai significativo nei decenni successivi, quale “luogo” dal quale si contribuì al formarsi di un ethos che corrispondesse ai compiti di uno Stato moderno, partecipato e solidale.
Il tema che è stato individuato dal competente Comitato scientifico e organizzatore è quanto mai cruciale: “Il bene comune oggi”, con un sottotitolo che precisa “un impegno che viene da lontano” ma che sa osare uno sguardo adeguato sul domani, come è ben spiegato nel documento predisposto in vista appunto dell’incontro, e come è stato fruttuosamente lumeggiato nei tre seminari preparatori svoltisi nei mesi scorsi.
Inutile dire l’attesa che nutriamo verso questo appuntamento, nel quale verrà opportunamente messa a fuoco quell’idea di bene comune che è stato uno dei cavalli di battaglia più qualificanti il nostro cattolicesimo sociale, e che nella dottrina del Concilio Vaticano II, come nel magistero più recente dei Papi, ha trovato una trattazione così illuminante da imporsi come ossatura di ogni successivo sviluppo.

11 Attenta com’è alla persona umana, nella sua dimensione sociale e trascendente, la Chiesa non può disinteressarsi dell’esperienza fondamentale del lavoro e dunque anche della Formazione professionale. La giusta attenzione alla formazione permanente e alla riqualificazione lavorativa a favore degli adulti non deve far dimenticare – come sembra accadere in varie Regioni – l’attività di formazione al lavoro da destinare ai giovani: se così si facesse, si finirebbe col far aumentare, anche sotto questo aspetto, le differenze tra il Nord e il Sud del Paese, e si disperderebbe un patrimonio educativo che è stato garantito per decenni da vari enti, anche d’ispirazione cristiana. Il sistema della Formazione professionale – rivelatosi fino ad oggi strumento valido per una crescita basilare dei giovani e per il loro inserimento socio-lavorativo, oltre che preziosa opportunità di prevenzione dal disagio sociale e dalla dispersione scolastica – deve trovare oggi, attraverso un adeguato raccordo tra provvedimenti nazionali e regionali, una nuova definizione che gli faccia superare disomogeneità e frantumazione e lo rilanci in tutto il territorio.
Un altro problema particolarmente acuto, cui come Pastori veniamo continuamente interessati, è quello della casa. Mi riferisco in particolare al dramma di coloro – pensionati o famiglie con un solo reddito – che sono raggiunti da provvedimenti di sfratto e non trovano altre opportunità. Ma pensiamo anche ai giovani fidanzati che vorrebbero sposarsi e nei loro progetti sono annichiliti per il problema dell’abitazione che non si trova oppure è inavvicinabile per le loro risorse. Ci sono inoltre situazioni di promiscuità, dove famiglie diverse sono costrette a vivere in uno stesso appartamento, magari fatiscente, e per ciò stesso non in grado di garantire un vicendevole rispetto.
Su questo fronte, la collettività ai vari livelli deve darsi uno slancio, e approntare quelle soluzioni di edilizia popolare che per vaste zone e in una serie di città appaiono veramente urgenti. Anche agli istituti bancari e di credito vorrei far presente questa emergenza perché, tenendo conto delle condizioni internazionali e secondo le loro possibilità e competenze, vogliano maggiormente contribuire con senso di equità ad una concreata soluzione del problema.

12 Cari Confratelli, mentre ringraziamo il Signore Gesù per il grande bene presente nelle nostre Chiese, non ci nascondiamo le difficoltà e neppure le contraddizioni che il nostro tempo presenta: la storia insegna che ogni epoca porta con sé le sue proprie sfide sul piano religioso, culturale, e socio-politico. Ma porta anche le sue opportunità. Si tratta di luci e ombre che abbiamo evidenziato già negli Orientamenti pastorali per il decennio e più recentemente nella citata Nota pastorale che vuol dar seguito al Convegno ecclesiale di Verona. Come uomini di fede, sappiamo che la storia ha la sua teologia, e dunque è sempre storia di salvezza in quanto procede verso il suo fine, che non è la notte del nulla, ma la luce di Dio. Sappiamo che il Signore Gesù sa trarre il bene per le vie misteriose della sua Pasqua. Sappiamo altresì che ogni epoca non è mai solamente “tempo” (cronos), ma è sempre anche “grazia” (kairòs). Guardiamo dunque a quest’ora con lo sguardo e il cuore di Cristo buon Pastore. È questo sguardo teologale che, insieme ai nostri carissimi Sacerdoti, vogliamo che cresca nelle nostre comunità. Per questo, di fronte a ostacoli e – talora – incomprensioni, non ci abbandoniamo a recriminazioni sterili, e neppure ci affidiamo soltanto a pur opportune metodiche pastorali; ma ci sentiamo chiamati, come inguaribili Pastori, a spremere dal nostro cuore un supplemento d’amore verso tutti.
Amore che si sostanzia della fede nella Croce gloriosa di Cristo e in un più grande sacrificio di noi stessi. Sospinti da questo amore evangelico, non possiamo tacere: a tutti, sempre e dovunque, annunciamo la lieta verità di Dio che è Padre e la lieta verità dell’uomo che risplende in Gesù di Nazareth. Da duemila anni rimbalza da cuore a cuore, da generazione a generazione, la gioiosa notizia del Vangelo che è luce amica di tutti.
Sappiamo che le parole di Cristo rispondono agli interrogativi ultimi della ragione, ma anche sostengono e stimolano la ragione stessa nella ricerca delle verità più profonde sull’uomo e sul creato. Sollecitandola altresì a non accontentarsi di risposte solo immediate e di superficie.
Come non ricordare qui i nostri carissimi Sacerdoti? A loro, che ogni giorno spendono se stessi per il servizio e il bene della gente, sorretti dall’amore di Cristo che colma e rallegra ogni fatica e ogni solitudine, rinnoviamo il nostro affetto di Pastori e la gratitudine della Chiesa.

13 Il valore intangibile della persona e della vita umana, vita che deve essere accolta e accudita fin dal sorgere, ed amorevolmente accompagnata fino al suo naturale tramonto; la famiglia fondata sul matrimonio, cellula fondante e inarrivabile di ogni società; la libertà dei genitori nell’educare i figli; il sereno senso del limite che accompagna la parabola dell’umana esistenza; il codice morale che si radica nell’essere profondo e universale dell’uomo e si esplicita e perfeziona in Gesù; la libertà che – lungi dall’essere mero arbitrio – è impegnativa adesione al bene e alla verità: vedo qui i capisaldi della storia e della tradizione del nostro popolo. Essi costituiscono l’ethos di fondo che – nonostante incoerenze e nuove sfide – dà corpo a quel senso di reciproco riconoscimento e di comune appartenenza che ci fa sentire “società”, “casa” aperta e accogliente verso tutti coloro che vogliono rispettosamente entrare. Sovviene quel che diceva il teorico marxista Roger Garaudy, nel suo studio intitolato “Il marxismo e la morale” (1948): “Il cristianesimo ha creato una nuova dimensione dell’uomo: quella della persona umana. Tale nozione era così estranea al razionalismo classico che i Padri greci non erano capaci di trovare nella filosofia greca le categorie e le parole per esprimere questa nuova realtà. Il pensiero ellenico non era in grado di concepire che l’infinito e l’universale potessero esprimersi in una persona”.
Come la storia dimostra, la vera civiltà non nasce da una buona organizzazione, ma da un’anima buona, cioè da quell’insieme di ideali spirituali, alti e nobili, che riguardano non tanto il funzionamento di un’esistenza, ma il senso dell’esistere. Riaffiora un’affermazione del poeta latino Giovenale: “Considera sommo crimine… perdere per la vita le ragioni del vivere”. È vero, ci sono valori ai quali vale la pena dedicare la vita: barattarli, questi valori, significherebbe annichilire le sorgenti della vita stessa. Là dove essa perderebbe il suo significato. E ciò vale per i singoli come per la società: anche un Paese e la sua civiltà hanno contenuti culturali e valori spirituali che giustificano l’impegno di una vita. Quando questi non esistono più o sono irreparabilmente aggrediti, allora vengono meno le fondamenta stesse e le energie vitali che sostengono ogni autentica comunità.
Solo su simili premesse, che vanno continuamente custodite e alimentate, un Paese vive e prospera. Ed ecco perché ogni attentato alla vita, alla famiglia, alla libertà educativa, alla giustizia e alla pace… troverà sempre una parola rispettosa e chiara da parte della Chiesa. Mi si permetta, al riguardo, un rapido ma accorato riferimento allo scenario internazionale. Ossia, alla vicenda che, nelle ultime settimane, ha visto protagonista Amnesty International, a proposito della clamorosa inclusione, tra i diritti umani riconosciuti, della scelta di aborto, magari anche solo nei casi di violenza compiuta sulla donna. Sono derive che ci rendono ulteriormente avvertiti del pericoloso sgretolamento a cui sono sottoposte le consapevolezze umane anche più evidenti, e della necessità quindi di una presenza qualificata a contrastare simili esiti.

Cari Confratelli, l’Italia merita un amore più grande! L’incanto della sua natura, la ricchezza della sua storia, la fecondità delle sue radici cristiane, la fioritura delle sue tradizioni, quella diffusa sensibilità che è nell’animo della sua gente insieme ad una intelligenza creativa, meritano un maggior apprezzamento da parte di tutti e un rinnovato senso di appartenenza e di amore al Paese. Meritano una responsabilità più grande!
Come Pastori, e insieme alle nostre comunità, continueremo ad annunciare Cristo, riscatto e speranza dell’uomo. Lo annunceremo con tutta la fede e la passione di cui siamo capaci; lo annunceremo quali che siano le conseguenze sul piano umano, persuasi che annunciare Cristo è servire l’uomo e che il Vangelo è sempre fonte di umanità vera per tutti.

Affidiamo noi stessi, le nostre Chiese, il nostro amato Paese alla Vergine Maria, da ogni parte invocata dal nostro popolo con le espressioni più belle della filiale devozione.


Angelo Bagnasco
Presidente

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